Reddito Garantito e
nuovi diritti sociali
I sistemi di protezione del reddito in Europa a confronto
per una legge nella regione Lazio
A cura dell’Assessorato al Lavoro,
Pari opportunità e Politiche giovanili della Regione Lazio
via Rosa Raimondi Garibaldi, 7 00145 Roma,
tel. 06.51685202 - http://www.regione.lazio.it
Impaginazione e grafica Fabio Giorgetti (Socialgraph.org)
Tipografia New Interstampa S.r.l. via della magliana, 295 00146 Roma
Finito di stampare Febbraio 2006
Reddito Garantito e nuovi diritti sociali
I sistemi di protezione del reddito in Europa a confronto
per una legge nella regione Lazio
Coordinamento e ricerca
Sandro Gobetti
Agostino Mantegna
Luca Santini
Fabrizio Stocchi
Andrea Tiddi
Hanno collaborato
Sara Biancone
Lorenzo Cassata
Alessandro Felici
Giulia Pandolfi
Daniele Vazquez
Correzione e revisione
Anna Maria Cecchini
Traduzioni
Sabrina Del Pico
INDICE
Prefazione............................................................................................................................pag. 11
Introduzione.......................................................................................................................pag. 15
Per una democrazia redistributiva......................................................................................pag. 19
- Il Guaranteed income negli Usa
Le politiche di lotta alla povertà negli anni Sessanta e Settanta........................................................pag. 22
- Il reddito garantito in Europa
Sistemi di protezione del reddito nell’Unione europea......................................................................pag. 30
- Un reddito per tutti
Filosofia generale del Basic income............................................................................................pag. 40
Lavoro flessibile, nuovi bisogni sociali
e sistemi di protezione nel post-fordismo.........................................................................pag. 45
- L’esperienza della precarietà
Il rischio come orizzonte d’esistenza, l’incertezza come prospettiva per il futuro...................................pag. 49
- Il sistema del welfare in Italia
L’attuale legislazione sulla protezione sociale..................................................................................pag. 59
- Il reddito per chi, quando, quanto, come e da chi
Cinque domande per ripensare la protezione del reddito...................................................................pag. 75
Bibliografie............................................................................................................................pag. 99
- Il dibattito sul Basic income tra il 1960 e il 2005...................................................................pag. 101
- Il lavoro flessibile nel post-fordismo..................................................................................pag. 117
Allegati.................................................................................................................................pag. 121
- Gli indici di povertà: dettaglio statistico.......................................................................................pag. 123
- Confronto tra i sussidi di disoccupazione nei paesi Ue...................................................................pag. 129
-Sistemi di protezione del reddito in Europa: schede Missoc............................................................pag. 141
Questa pubblicazione, promossa dall'Assessorato al Lavoro, Pari opportunità e
Politiche giovanili, si iscrive nel quadro di un ampio programma politico che la
nostra istituzione sta portando avanti in merito ai nuovi diritti e al tema del
"reddito garantito".
In attesa di mettere a punto nuovi strumenti legislativi per garantire il diritto al
reddito, diretto e indiretto, stiamo tentando con grande sforzo di delimitare i
reali contorni della situazione del Lazio. I numerosi segnali sul peggioramento
delle condizioni economiche del Paese hanno naturalmente un riflesso anche
nella nostra regione e interessano per primi gli individui e le famiglie. Per molte
persone sta diventando difficile pagare l'affitto, mandare i propri figli a scuola,
far fronte alle necessità quotidiane.
Assieme a Portogallo e a Spagna, abbiamo il tasso di rischio povertà più alto
dell'Unione. Undici milioni di italiani, il 15 per cento dei cittadini europei, è "a
rischio povertà". Il dato riportato dall'Eurostat è preoccupante, soprattutto se
considerato assieme a quello sulla disoccupazione.
Nel Lazio il 7,9 per cento della popolazione è disoccupata: percentuale che ci
allontana dalla Sicilia - 17 per cento - ma anche dalla Provincia autonoma di
Bolzano - 2,7 per cento. Il quadro peggiora di molto quando si considerano
l'occupazione femminile e quella giovanile. Siamo ancora molto lontani dagli
obiettivi dell'Agenda di Lisbona, che fissava, ad esempio, il tasso di occupazione
femminile al 60 per cento entro il 2010.
E' per queste ragioni che riteniamo prioritari, nel nostro programma di governo,
interventi di sostegno alle fasce sociali in difficoltà.
Non credo nella logica dell'assistenzialismo, che di fatto crea solo forme di
dipendenza economica e psicologica dei cittadini dalle istituzioni. Intendo invece
puntare su un criterio di responsabilità e su un principio di vicinanza alle esigenze
dei cittadini, sia attraverso forme dirette di finanziamento, sia indirettamente
attraverso l'erogazione di servizi.
E' un'idea nuova di welfare, che pone il cittadino e i suoi diritti al centro del-
l'azione politica. Nulla è dovuto, ma tutto si può costruire assieme, cittadini e
istituzioni. Questa pubblicazione si inserisce in questo contesto. Diamo ai cittadini
del Lazio un utile strumento sul tema delle trasformazioni del mercato
del lavoro, ma anche sulle questioni che riguardano i diritti sociali, con uno
sguardo attento alle esperienze già presenti nel continente europeo.
Il Presidente della Regione Lazio
Piero Marrazzo
Prefazione
Questa pubblicazione nasce da un lavoro di ricerca promosso dall'Assessorato al Lavoro,
Pari opportunità e Politiche giovanili della Regione Lazio che voleva focalizzare la questione
del reddito di base e delle misure di protezione sociale all'interno dello scenario europeo.
L'obiettivo era fare una comparazione tra i diversi modelli europei per cominciare a
capire cosa è possibile attivare nella nostra regione e in che modo. Questo studio diventa
ora una pubblicazione che vogliamo raggiunga tutti i luoghi della Regione e non solo.
Per arrivare alla comparazione dei modelli europei delle forme di sostegno al reddito, la
ricerca è passata attraverso l'articolazione delle trasformazioni del mondo del lavoro,
affrontando il nodo delle nuove povertà, dei bisogni e dei diritti delle nuove figure sociali,
a partire dai precari e dalle precarie con uno sguardo attento anche al dibattito internazionale
ed alle filosofie economico-politiche che ruotano intorno al tema del reddito di base.
Già, perchè la questione è apparsa subito meno astratta e meno idealista di quello che spesso
si pensa. Esistono nel corso del tempo, dal caso di Bruges nel 15261 in poi, numerose
sperimentazioni a riguardo e in più di un'occasione governi locali, regionali o nazionali
hanno avviato forme di reddito garantito.
Il tema è stato, ed è ancora oggi dibattuto da economisti, premi nobel, politici di ogni calibro
e posizione e questa pubblicazione, riporta all'attenzione del lettore un dibattito che
ha caratterizzato, negli Stati uniti come in Europa, la scena economica e politica del '900
come di questi giorni a segnalare l'ampiezza dei temi e dei contenuti ma anche la pluralità
dei soggetti coinvolti. Questo lavoro è una sorta di manuale pratico e teorico, una utile
scatola degli attrezzi che può offrire un sostegno al dibattito e a coloro che ci si stanno
misurando.
Le competenze dell'Assessorato che sono chiamata a governare sono il crocevia proprio
di quelle trasformazioni produttive che stanno vedendo emergere le nuove povertà ma
anche i nuovi bisogni. La rivoluzione tecnologica negli ultimi anni ha scosso tutto il panorama
dei paesi industrializzati e la globalizzazione dei mercati ha rideterminato i piani di
questo scenario, sia sotto il punto di vista dei territori che delle professioni, ridisegnando
così un nuovo modo di produrre ed organizzare il lavoro. Già dagli anni Ottanta, alla
difficoltà del sistema di assicurare lavoro sufficiente, si è aggiunta quella dinamica
di precarizzazione dei rapporti sociali oramai inserita totalmente nei
moderni processi produttivi. La flessibilità, che doveva e poteva essere elemento
di diverse attività nel corso di una vita, è divenuta totale precarietà. Questa è
divenuta di fatto forma di regolamentazione del lavoro, organizzazione del
lavoro e, come un domino, ha coinvolto tutti gli aspetti della vita. Il disagio più
forte è avvertito proprio quando si prova ad immaginare il proprio futuro, nel
1 Gli assessori di Bruges, diedero vita ad un sistema di "sovvenzione dei poveri". La de subventione
pauperum proclamava il diritto ad ogni uomo di usufruire delle ricchezze della natura, proponendo
la creazione di un reddito garantito - non solo per i poveri: "ivi compresi i giocatori e le prostitute"
(Etude historique des relations entre la Fiandre et l'Espagne au moyen age, Paris 1899 citato su Gli ebrei e il
mondo del denaro, Ed.Argo Lecce 2003) . Un' idea di redistribuzione in base al quale ogni comunità
diveniva responsabile dei furti e degli omicidi commessi nel vicinato, per non essere stata capace di evitare
la povertà attorno ad essa. " (Gli ebrei e il mondo del denaro, Ed.Argo Lecce 2003)
costruire quei passaggi necessari al raggiungimento dei propri bisogni e dei propri
desideri. La precarietà del lavoro è divenuta dunque precarietà di vita e la
mancanza di garanzie e di diritti non solo genera un nuovo disagio sociale e
nuove povertà, ma rimette in discussione quel piano di riconoscimento della
cittadinanza, di appartenenza ad una società.
Nella costruzione di una misura di garanzia di reddito è necessario individuare
più obiettivi, a partire dal legame che c'è tra l'erogazione diretta (reddito monetario)
con un'erogazione indiretta (servizi e beni). Nella pubblicazione si è voluto
realizzare un focus su quelli che possono essere gli effettivi bisogni di queste
nuove figure del mondo del lavoro e non solo, e dai quali si può partire.
Questo ci aiuta a comprendere meglio quali misure possibili e praticabili è il
caso di assumere per avere un effetto positivo nella quotidianità dei soggetti
beneficiari.
I nuovi problemi vanno compresi nella urgenza che ognuno di essi esprime. È
necessario trovare, per ciascuno di essi, un'adeguata soluzione: l'insieme di quelle
misure così individuate può definire un nuovo sistema di garanzie, un nuovo
sistema di diritti, necessario a far fronte ai rischi di dissoluzione della vita sociale
e democratica.
Questa ricerca dunque, ha individuato più cose su cui riflettere e da cui prendere
spunto per progettare un intervento legislativo anche per la regione Lazio.
Le cinque domande finali chiudono un lavoro che costruisce un viaggio a più
dimensioni legato da un filo rosso che di fatto oggi è una delle centralità del
dibattito contemporaneo: la necessità di ripensare quella che potremmo definire,
così come è definita in questa pubblicazione e suggerita da numerosi studiosi
del tema, la questione di una democrazia redistributiva.
Il riconoscimento formale dei diritti non basta, bisogna costruire politiche in
grado di garantire l'accesso a questi diritti anche attraverso misure capaci di trasformare
realmente la qualità delle condizioni sociali. A partire dalle enormi
disparità economiche presenti oggi, una forte polarizzazione dei redditi e una
enorme precarizzazione, rischiamo di avere una democrazia a metà, un sistema
che vede le disparità sociali riemergere con forza e con le quali qualsiasi governo,
di qualsiasi colore politico, dovrà fare i conti. Si tratta di una battaglia di
civiltà. Per questo è necessario che l'idea di un reddito garantito non si inserisca,
così come suggerisce anche questo lavoro, solo dentro un quadro di mera
assistenza o a forme di intervento di ultima istanza, ma bensì sia in grado di
intervenire in un contesto più ampio di nuovi diritti e nella costruzione di un
nuovo immaginario di società.
Non si tratta di ragionare intorno a forme di sostegno che diano qualcosa a
qualcuno quando non ce la fa più, ma di porre con forza il concetto di opportunità,
che anche attraverso una forma di sostegno al reddito, può determinarsi.
Come Assessorato al Lavoro della Regione Lazio quindi continuiamo questo
percorso per la realizzazione di forme di sostegno al reddito, diretto e indiretto,
a partire dalle competenze che abbiamo e dal territorio che stiamo amministrando.
Questa pubblicazione va in questa direzione e su questa strada, che ci
ha visti e ci vedrà ancor più fortemente impegnati, lavoreremo affinchè questo
tema diventi di dominio pubblico, nel modo più partecipato possibile, poiché
crediamo che la politica debba essere strumento di governabilità dei processi in
corso finalizzata ad un benessere collettivo.
Tra i tanti nomi con cui si definisce il reddito, minimo, di base, di inserimento,
di cittadinanza, di ultima istanza, abbiamo deciso di utilizzare il termine "garantito"
per dare un segnale di universalità.
E' una occasione per agire sulle trasformazioni che la globalizzazione dei mercati
e la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro stanno comportando nelle economie
locali. Porre la questione del reddito nel dibattito politico, così come
fatto anche in altre regioni, significa essere in grado di portare questo tema
anche sul piano nazionale affinchè si inserisca in una più ampia, organica ed
efficace riforma del welfare.
Il ruolo delle Regioni può, anche se limitato alla dimensione locale e nelle
disponibilità economiche, essere di grande rilievo politico. La nostra funzione
di rispondere alle esigenze dei territori, può essere di grande spinta verso l'innovazione
in particolare sul piano degli interventi riguardanti le politiche di
sostegno al reddito indiretto.
Le aspettative sono dunque molte e, seppur necessarie, sappiamo che non
bastano ricerche e pubblicazioni. Proprio per questo vogliamo essere a disposizione
di tutti coloro che intendano agire su questo tema: sindacati, forze politiche
e sociali, movimenti e terzo settore, partiti politici e istituzioni. Ma vogliamo
coinvolgere anche il mondo delle imprese perché crediamo che sia necessaria
una presa di posizione ampia per fermare una deriva che rischia di far precipitare
milioni di persone in uno stato di disagio grave e forse strutturale.
Riteniamo quindi necessario coinvolgere tutti e vogliamo a nostra volta essere
coinvolti per un percorso aperto, trasparente e partecipato verso una nuova stagione
di diritti sociali, di garanzie, di nuovo sviluppo, a partire dalla regione
Lazio.
Alessandra Tibaldi
Assessora al Lavoro, Pari opportunità e Politiche giovanili della Regione Lazio
Introduzione
Il sistema del lavoro, negli ultimi decenni del secolo XX, ha subito profonde
trasformazioni inducendo la letteratura di settore a parlare di un evoluzione
“postfordista” della produzione. Le strutture e le dinamiche che, dal dopoguerra
fino agli anni Ottanta, hanno caratterizzato il sistema del lavoro, infatti,
hanno cambiato radicalmente aspetto. Negli ultimi dieci anni si è assistito ad
una radicale trasformazione delle forme di produzione e di regolazione dei rapporti
fra impresa e lavoro, alla decentralizzazione della produzione e alla flessibilità
della prestazione.
Quando si dice “lavoro fordista” s’intende, per definizione, un lavoro a tempo
pieno fondato sul principio del “lavoro per una vita”. Il lavoro di fabbrica, con
i suoi ritmi scanditi e i suoi spazi organizzati, delimitati e definiti, è il tipo di
lavoro paradigmaticamente fordista. A fronte di una ritmicità e continuatività
della produzione e del sistema di lavoro si determinava un’organizzazione della
vita non meno ritmicamente scandita da cicli ben determinati. Il giovane faceva
ingresso nel mondo del lavoro, dove un sistema di garanzie lo sosteneva in
caso d’infortunio o di malattia. Le scuole e le università pubbliche formavano
l’individuo, prima del suo ingresso nel mondo del lavoro, così come il sistema
pensionistico garantiva un certo grado di sicurezza economica a chi usciva da
esso. Un insieme di garanzie sociali, il Welfare state, con cui lo Stato poteva sostenere
anche gli squilibri intrinseci del sistema di lavoro. Un sistema che, come si
diceva allora, con una certa dose di cinismo, si prendeva cura degli uomini e
delle donne “dalla culla alla tomba”.
Oggi, nel “postfordismo”, il lavoro fisso è sempre meno una possibilità reale e
sempre più un’eccezione, soprattutto per i cittadini più giovani. Si è iniziato a
parlare di precarietà del lavoro e della vita quale risvolto negativo della flessibilità
introdotta da questo nuovo sistema del lavoro. Il lavoratore postfordista,
flessibile e precario, si trova di fronte alle esigenze della propria esistenza privo
della pur minima protezione sociale. Ciò comporta, per questo lavoratore, forti
squilibri soprattutto nella gestione della propria vita presente e nelle scelte per
il futuro. Nell’introdurre la flessibilità del lavoro, nel liberalizzare il rapporto tra impresa
e lavoratori, la legislazione ha mancato di stabilire un sistema di garanzie che fosse adeguato
a queste nuove forme di contratto di lavoro. La liberalizzazione dei contratti ha finito per
coincidere con una vera e propria deregolamentazione dei rapporti tra lavoratori e impresa. A
questo punto, il lavoro flessibile è diventato, per antonomasia, un lavoro senza
regole e senza garanzie: un lavoro precario. Oggi, è compito urgente del legislatore
riesaminare l’ordine delle questioni in gioco e porre termine a questa anomalia
legislativa e agli squilibri sociali che la precarietà ha introdotto affrontando
il problema in modo radicale, valutando nel merito le implicazioni dell’attuale
condizione d’incertezza e le possibili soluzioni.
L’introduzione di un provvedimento legislativo che definisca il diritto al reddito
costituisce, in questo contesto, un tema politico di particolare rilevanza. Il
campo della sperimentazione in questo senso non è però omogeneo e le proposte
a riguardo si diversificano per obiettivi e metodi adottati. Una differenza
di interpretazione che si evidenzia anche in riferimento alle differenti terminologie
adottate, termini che sarà bene chiarire fin dall’inizio. In genere si parla di
reddito di cittadinanza quando ci si riferisce ad un provvedimento che prevede
un’erogazione economica che intende essere universale (ossia destinata a
tutti i cittadini residenti), continua (ossia regolarmente garantita nel tempo) e
indipendente dal lavoro (ossia tale da non essere vincolata dalla prestazione
lavorativa effettuata dal destinatario). In tal senso, questa misura dovrebbe
garantire un reale ed effettivo esercizio dei diritti di cittadinanza azzerando i
limiti socioeconomici che la limitano. Il reddito di cittadinanza consiste, dunque,
nell’erogazione di una quota monetaria che va a sostituire le attuali prestazioni
previdenziali e assistenziali in vigore e può essere calcolata facendo riferimento
agli indici di povertà relativa o di povertà assoluta e include forme di
reddito indiretto (erogazione gratuita di beni e servizi primari come la casa, i
trasporti, la salute).
Si parla, invece, di reddito minimo vitale o d’inserimento in riferimento alle
erogazioni di reddito sottoposte a determinati vincoli. Essa si configura come
una misura decisamente più restrittiva sia per ciò che riguarda l’entità moneta-
ria del provvedimento, sia per ciò che concerne le condizioni dei destinatari.
Questa misura si riferisce a politiche di workfare con l’obiettivo dell’inserimento
lavorativo, vincolo dal quale esso è condizionato. I destinatari sono non tanto i
cittadini in quanto tali, ma gli esclusi dal mercato del lavoro (ossia i disoccupa-
ti). Questa impostazione è propria delle correnti neoliberali.
Infine, il reddito garantito o di base configura una misura che tende a reintegrare
il reddito della popolazione che si trova sotto una certa soglia di povertà
e che risponde a determinate caratteristiche. Come il reddito di cittadinanza
esso prescinde dalla prestazione lavorativa, dunque rispetta il criterio di incondizionatezza,
e però non è universale.
Come si vede il criterio della condizionatezza è centrale nel caratterizzare le
misure di protezione del reddito. Per coloro che propendono per un’erogazione
incondizionata, come i riformisti più radicali sostenitori del reddito di cittadinanza
(tra i quali gli esponenti del marxismo analitico, Philippe Van Parijs e
Erik Olin Wright), la misura ha un valore strategico ed è un obiettivo di liberazione
in sé. Questa posizione stabilisce un diritto inalienabile al reddito ed ha
l’intera popolazione quale proprio destinatario. Il suo punto di vista parte dai
soggetti e dai loro diritti.
Sul versante diametralmente opposto i sostenitori di un’erogazione vincolata
alla prestazione lavorativa e a determinate condizioni di povertà, come i teorici
neoliberali (quali Milton Freedman e Ralf Dahrendorf, le cui teorie influenzano
gran parte delle misure attualmente in vigore nei paesi anglosassoni), il reddito
minimo vitale è individuato principalmente quale strumento di compensazione
e contenimento dei disagi economici prodotti dall’economia di mercato
per le fasce più marginali della popolazione. Qui il reddito erogato è reso funzionale
al sistema del mercato del lavoro e ne vuole contenere i disagi che
potrebbero concorrere a rendere instabile il sistema sociale: la preservazione
del sistema è il punto di vista specifico di questa posizione e individua i propri
destinatari solo in una quota marginale della popolazione, per esempio i disoccupati.
Su una via intermedia, che sposa praticabilità immediata e giustizia effettiva
della misura, troviamo il reddito garantito, il quale viene legato a particolari
condizioni dei soggetti, condizioni che li pongono in posizioni di oggettivo
svantaggio, come quella della precarietà lavorativa. Questa posizione individua,
in modo preciso, i destinatari del provvedimento e ha come obiettivo quello di
garantire a questi soggetti quei diritti che, per la posizione di svantaggio socioeconomico
nella quale versano, sono loro negati. In questa versione il reddito
garantito non rappresenta immediatamente un’emancipazione in sé, ma è una
tappa importante del riconoscimento delle garanzie negate ai soggetti a rischio
di esclusione rafforzandone la posizione sociale ed economica. Democrazia
redistributiva e precarietà dell’esistenza sono i parametri centrali sui quali questa
posizione si articola.
Per una democrazia redistributiva
………………………………………………………………………………
La proposta di introdurre un reddito garantito di base, ossia un reddito sganciato
dalle forme del lavoro e destinato a tutti i cittadini, è spesso presentata nel
dibattito con gli attributi dell’utopia, dell’astrattezza. Si guarda ad essa con sufficienza
perché la sua filosofia generale, i suoi principi fondamentali, sono
generalmente bollati come frutto di stravaganti divagazioni teoriche. Tale proposta
mancherebbe, secondo i suoi avversari, di realismo, troppo utopica, indifferente
e incompatibile con lo sviluppo delle società fondate sull’economia di
mercato. In questo scenario, essa sarebbe iscritta in una prospettiva oggettivamente
astratta, incapace di costruire una piattaforma d’interventi concreti,
misurabili e tecnicamente applicabili sul terreno delle politiche pubbliche attive.
In sostanza, la proposta di introdurre uno schema di radicale redistribuzione
del reddito è vista come prodotto di lunatiche contemplazioni che perdono
il senso della realtà.
A supportare quest’ottica critica verso i provvedimenti di redistribuzione del
reddito indipendenti dalla prestazione lavorativa si adduce la presunta mancanza
di riferimenti storici. Quale società, fino ad oggi, ha acconsentito a prospettare
l’introduzione di simili proposte? Quali istituzioni, democratiche, liberali o
conservatrici che fossero, hanno mai preso sul serio simili schemi di redistribuzione
del reddito? A partire da quali precedenti storici sarebbe possibile argomentare
una proposta per l’istituto del reddito di base? Nel capitolo che segue,
queste ragionevoli obiezioni non saranno aggirate, ma affrontate sul loro stesso
terreno. Mostreremo, infatti, che l’istituto del reddito di base non sorge dal
nulla. Non è il prodotto di mere astrazioni teoriche, ma è profondamente anco
rato alle politiche di riforma dei sistemi di welfare state del secondo dopoguerra1.
In particolare, tale istituto è connesso alle esperienze legislative degli anni
Sessanta e Settanta negli Usa e in Europa che, osservate in retrospettiva, appaiono
straordinariamente attuali, cariche di innovazioni rivoluzionarie e, per questo,
un riferimento ineludibile.
Proveremo, quindi, ad esaminare i fondamenti teorici sui quali l’introduzione di
un reddito garantito trova forza e attualità. Questi fondamenti sono le linee
direttrici da tenere necessariamente in considerazione nel momento in cui si
avanzano proposte di riforma in tal senso, sia perché è a partire da questi che
la proposta di introdurre un reddito garantito si comprende pienamente come
una generale riarticolazione del sistema delle protezioni sociali, sia perché essi chiariscono
i termini di una politica rivolta alla redistribuzione democratica della ricchezza quale
politica assolutamente attuale e necessaria.
1 La storia dell’idea di reddito di cittadinanza (nelle sue varie accezioni terminologiche, income guarantee,
basic income, state bonus, national dividend, social dividend, citizen’s wage, citizen’s income, universal grant,
eccetera) rimane ancora da fare, si veda comunque: Van Parijs, P. «A Short History of Basic
Income» in http://www.basicincome.org./; Morley-Fletcher, E. «Per una storia dell’idea di minimo
sociale garantito» in Rivista Trimestrale 64 (6), 1981: 298-321, e per uno specifico tratto di questa storia
la ricostruzione di Cunliffe, J. e G. Erreygers, «The Enigmatic Legacy of Charles Fourier: Joseph
Charlier and Basic Income» in History of Political Economy 33, 2001: 459-484.
Primi progetti
organici in direzione
della redistribuzione
del reddito
Il Guaranteed income negli Usa
Le politiche di lotta alla povertà
negli anni Sessanta e Settanta
Quando si parla di reddito di base s’intende un provvedimento che garantisce
ad ogni cittadino un reddito, indipendentemente dalla effettiva prestazione
lavorativa. Posto in questi termini, il provvedimento appare effettivamente
innovativo e privo di possibilità di confronto con esperienze del passato.
Bisogna però considerare che storicamente si sono già sperimentate proposte
di redistribuzione del reddito, anche se in riferimento a contesti differenti da
quello presente, fortemente caratterizzato dalla ristrutturazione postfordista
della produzione e della società. Già nel corso del secolo XIX, la storia del diritto
individua sperimentazioni di redistribuzione del reddito indipendente dalla
effettiva prestazione lavorativa, seppure occasionale.
A parte questi casi, per lo più estemporanei, un riferimento importante per la
riforma del welfare centrata sulla redistribuzione di reddito diretto è rappresentato
dalle politiche di War of poverty statunitensi degli anni Sessanta e Settanta,
con il suo più organico impianto di riforma. Esso delinea un’esperienza d’importanza
decisiva per ciò che concerne il dibattito sullo sganciamento del reddito
dal lavoro realmente prestato, anche se il progetto che avrebbe dovuto
darle attuazione finirà poi col naufragare (e, proprio questa mancata attuazione,
lascerà la porta aperta a tutti quegli squilibri sociali che ancora oggi vediamo
irrisolti). È nell’America di quei decenni che emerge con forza un progetto
di riforma democratica della società che pone al centro della propria riflessione
interventi di politica sociale indirizzati alla riallocazione delle risorse economiche
dell’assistenza sociale. Il reddito garantito inizia, per la prima volta, a
configurarsi come strategia effettivamente praticabile in un sistema di produzione
avanzato e le proposte di sussidio indipendente dalla prestazione lavorativa
si dimostrano parte integrante del più generale progetto welfaristico statunitense.
Questo progetto è, da un lato, senza dubbio il prodotto della esperienza
storica del movimento dei diritti civili, portato avanti dalla comunità afro-
americana sin dalla prima metà degli anni Sessanta e, dall’altro, conseguenza
degli stimoli provenienti dall’affermarsi, nella politica nazionale, del piano kennediano
di democratizzazione progressiva della società statunitense. Questo
movimento riformatore circa il reddito di base s’intreccia con la sfida che le
lotte per i diritti civili e le politiche kennediane stavano lanciando alla società
americana dei primi anni Sessanta.
In questo contesto, le fondamenta della democrazia sperimentale del New deal
vengono ridefinite, tra la fine della seconda guerra mondiale e la metà degli anni
Sessanta, allo scopo di scongiurare in modo radicale la crescente insicurezza economica.
Comparato con gli altri paesi industrializzati, il tasso di crescita economica
degli Stati uniti raggiunge il 3,9 per cento tra il 1949 e il 1959 e il 4,4 per
cento tra il 1959 e il 19692. A fronte di questa crescita, però, il tasso di disoccupazione
rimane costante al 4 per cento, con punte del 6 per cento nel periodo
1950-1954, fino a raggiungere l’apice del 7 per cento in quello 1959-19623.
I pericoli derivanti dall’entità di questa diffusa insicurezza economica e sociale
sono all’origine di quei progetti di riforma del Welfare system sostenuti nelle
amministrazioni di Lyndon Johnson e Richard Nixon e trovano senso nelle turbolenti
e, per molti aspetti, controverse fasi della politica detta della War on
poverty, la guerra alla povertà a quel punto inderogabile. Sono questi stessi progetti
di riforma l’origine di una serie d’interventi nelle politiche pubbliche che
è bene ricordare.
Gli interventi avevano i seguenti obiettivi:
estensione delle forme di pubblica assistenza;
liberalizzazione dei programmi di copertura medica per gli anziani e i poveri;
espansione delle forme di protezione sociale sul problema della casa, dei trasporti,
del lavoro e della disoccupazione;
incremento delle forme d’aiuto per i bambini e le donne in maternità provenienti
da famiglie disagiate;
creazione di pacchetti di fondi economici per il sostegno dei programmi scolastici
nelle aree più soggette ai fenomeni di povertà.
La richiesta di riforma dei programmi sociali, con la redistribuzione e la riallocazione
dei fondi del welfare, ben presto si focalizza intorno all’introduzione di
un Guaranteed income, letteralmente un “reddito garantito”. All’interno della War
on poverty prende progressivamente forma l’idea d’introdurre una base moneta-
ria come diritto di tutti i cittadini per la protezione allargata degli strati più
deboli della società. Riepiloghiamo brevemente le principali fasi di questa iniziativa
governativa.
Nel 1964, con l’Economic opportunity act (conosciuto come “Programma contro
la povertà”), prendono avvio le prime iniziative del governo federale volte,
attraverso processi di formazione e riqualificazione dei soggetti meno abbienti,
a stimolare l’aumento delle opportunità lavorative.
Nell’ottobre del 1965, l’Office of economic opportunity invia al Presidente Lyndon
Johnson il suo primo complessivo progetto di riforma contro la povertà, il
National anti-poverty plan, che contiene, tra l’altro l’importante raccomandazione
a discutere nel merito di una negative income tax per tutti i cittadini fortemente
disagiati in riferimento agli specifici bisogni di ciascuno.
Nel dicembre del 1966, la Chamber of commerce presiede, a Washington, il
National symposium on Guaranteed income, in cui membri del governo federale,
2 Maddison, A., «Growth and Slowdown in Advanced Capitalist Economies: Techniques of
Quantitative Assessment» in Journal of Economic Literature 25 (2), 1987: 649-698. Dati comparativi
sono presentati in Marglin, S. A. e J. B. Schor, The Golden Age of Capitalism: Reinterpreting the Postwar
Experience, New York: Oxford University Press, 1989: 47. Un diverso approccio e un differente
tasso di crescita al ciclo produttivo del dopoguerra è presentato in Bowles, S., Gordon D. M. e T.
E. Weisskopf, After the Waste Land: A Democratic Economics for the Year 2000, New York, M. E. Sharpe,
1990: 6.
3 Bowles, S., Gordon D. M. e T. E. Weisskopf, op. cit., 37.
La strategia
di redistribuzione
della ricchezza
ricercatori ed esponenti delle parti sociali discutono delle proposte di riforma
del welfare state, focalizzando l’attenzione sulla possibilità di redistribuzione del
reddito.
Nel gennaio del 1967, poche settimane dopo l’apertura del 90° Congresso,
Johnson invia alla nazione l’annuale Economic report, nel quale si legge:
“Nuove proposte per garantire un reddito minimo sono ora in discussione.
Esse variano dall’imposta negativa sul reddito alla completa
ristrutturazione dell’assistenza pubblica, al programma per il pubblico
impiego residuale per tutti quelli che non hanno un lavoro privato. Tra i
difensori di queste proposte ci sono alcuni dei più strenui sostenitori
della libera impresa. Questi piani d’intervento possono o non possono
essere praticabili. In questo momento sono quasi certamente al di là dei
mezzi in nostro possesso, ma noi dobbiamo esaminare qualunque progetto,
sebbene non convenzionale, che potrebbe prospettare un reale
avanzamento. Intendo stabilire una commissione formata da esponenti
di rilievo della società americana con il compito di esaminare il maggior
numero di proposte messe in campo, analizzandone meriti e svantaggi,
e redigere un rapporto finale che entro due anni dovrà essere consegnato
a me e al popolo americano”4.
Il discorso di Johnson mostra l’evidente interesse dell’allora presidente a prendere
seriamente in considerazione il perseguimento di queste ipotesi di riforma.
Ipotesi che circolavano già da alcuni anni all’interno delle istituzioni e degli
ambienti accademici e pubblici. Inizialmente, questo dibattito sul Guaranteed
income si svolge sulle pagine della rivista The public interest, legata agli ambientiliberali che operano negli organismi federali. È su questa rivista che, nel numero
dell’estate del 1966, l’economista neo-keynesiano James Tobin, futuro
Premio Nobel dell’economia, presenta una sua proposta. Criticando il governo
federale per la sua enfasi sugli interventi di tipo parziale, volti a costruire una
strategia che avesse come obiettivo quello di proteggere solo un 5 per cento
della popolazione più povera, Tobin oppone una strategia completamente
diversa e innovativa, che potremmo definire di tipo distributivo. Il fondamento
analitico della sua proposta riposa sull’idea che fosse necessario
“assicurare ad ogni famiglia un livello di vita decente a prescindere dalle
sue proprie capacità di guadagno [...] sia che essa abbia o meno al
momento la possibilità di garantirsi tale livello di vita attraverso il mercato
del lavoro”5.
Tobin abbozza un’idea della redistribuzione del reddito che non si basa direttamente
o esclusivamente sul salario percepito nel mercato del lavoro. Per la prima
volta il reddito viene sganciato dalla prestazione di lavoro e diviene variabile
indipendente rispetto alla quota di salario percepito assurgendo, invece, alla
4 Citato in Congressional Digest, vol. 46, n. 10 (Ottobre), 1967: 231.
5 Tobin, J., «The Case for an Income Guarantee» in The Public Interest 4 (Estate), 1966: 31.
dignità di un diritto fondamentale. Tobin, così, distingue in modo inequivocabile,
due livelli di strategia per la riforma del welfare, quello parziale e quello distributivo:
una distinzione che tutt’oggi rimane utile per discernere ab incipit gli schemi
di sostegno avanzati dalle politiche pubbliche. Tobin polemizza con i programmi
governativi di assistenza pubblica, incapaci, a suo dire, di rispondere alle
reali esigenze dei più poveri, perché diretti a famiglie che si trovano oltre la
cosiddetta “soglia di povertà”. In secondo luogo, quel sistema di assistenza pubblica
è, secondo Tobin, equipaggiato in modo tale da favorire forme perverse di
dipendenza. In terzo luogo, la struttura del means test, ossia il test col quale l’ente
erogatore del reddito misura il livello di indigenza e di necessità del destinatario,
disincentiva il lavoratore ad incrementare il suo capitale conoscitivo (skill).
Infine, queste forme di ripartizione di sostegno pubblico sono strutturate su
stretti criteri di assegnazione e su un rigido regime di controllo dell’eventuale
beneficiario. Contrariamente, Tobin illustra il proprio piano di redistribuzione,
una piattaforma politico-economica in grado di rimpiazzare il sistema dell’assistenza
pubblica con uno schema di sussidio reale al reddito. La sua proposta
parte dall’assunzione che si tratta di una
“redistribuzione del reddito e del consumo, non di un piano d’interven
to governativo sulle risorse produttive come quello che riguarda la
costruzione di missili o scuole”6.
Nella sezione centrale del suo intervento, l’economista americano presenta una
previsione di spesa che mostra l’eventuale impatto del sussidio al reddito su una
famiglia idealmente composta da una coppia con tre figli. Non nasconde le probabili
conseguenti frizioni con il sistema fiscale vigente cui la famiglia andrebbe
incontro, oltre al costante stato d’allerta che il sussidio impone ad essa nel quotidiano
tentativo di bilanciare economia, incentivi e adeguata redistribuzione del
reddito (sarà proprio questo difficile equilibrio che verrà successivamente criticato
nell’intervento del direttore dell’Office of economic opportunity, l’allora A. L.
Schorr7). Nel ‘67 Tobin torna nuovamente sull’argomento prospettando, questa
volta, uno schema compiuto di riforma fortemente ancorato alla necessità di
combattere in modo radicale la povertà diffusa8.
Nel numero successivo di The public interest il dibattito verrà ulteriormente
approfondito con il contributo del sociologo H. J. Gans, il quale concentra l’attenzione
sulla proliferazione di bad jobs, ossia quei lavori sottopagati frequenti e
diffusi nelle grandi realtà urbane. Gans insiste sulla necessità di combattere la
proliferazione dei “cattivi lavori” comuni alla popolazione afro-americana e ad
6 Tobin, J., op. cit.: 41.
7 Si vedano il suo «Against a Negative Income Tax» (in The Public Interest 5, 1966: 110-117) e la replica
di Tobin «A Rejoinder» (ibidem.: 117-119).
8 Tobin, J., Pechman J. A. e P. M. Mieszkoski, «Is Negative Income Tax Practical?» The Yale Law
Journal 77 (1) (1967): 1-27. Piani alternativi e più specifici saranno inoltre presentati da Tobin a varie
riprese, per esempio in «Do we want Children’s Allowances» in The New Republic, November 26,
1967; in «Helping the Children» in The New Republic, December 23, 1967. L’intera gamma di proposte
emerse in questo breve arco di tempo sarà infine passata in rassegna critica da J. C. Vadakin,
«A Critique of the Guaranteed Annual Income» in The Public Interest 11 (Primavera), 1968: 53-66.
altre minoranze etniche. Sottolinea quindi l’opportunità di riorentiare le proposte
di sostegno al reddito verso questo segmento della popolazione lavorativa
in modo da interrompere il circolo vizioso che lega questi lavori alla disoccupazione
e alla povertà indotta. Un’indicazione di cui, in seguito, avrebbe tenuto
conto una nuova generazione di economisti urbani9.
Ben presto il dibattito si sposta sulle forme d’imposta negativa sul reddito,
lasciando sullo sfondo l’idea di separare la questione del prelievo con cui finanziare
gli schemi di sussidio dalle proposte di redistribuzione del reddito indipendente
dal salario percepito nel mercato del lavoro. Sarà, invece, la versione “conservatrice”
del padre della corrente monetarista, Milton Friedman, ad essere
presa a riferimento del dibattito. Al simposio sul Guaranteed Income del ‘66
Friedman espone la sua versione della negative income tax rimarcando le filosofie
che le fanno da sfondo:
“La proposta di un supplemento per il reddito dei poveri, basato sul calcolo
della loro mancata esenzione fiscale e dedotta dal reddito percepito,
è stata salutata dalla sinistra con un certo entusiasmo, ben lungi dall’essere
unanime, e con altrettanta ostilità dalla destra, anche in questo caso,
con qualche eccezione. Eppure, la nostra opinione è che l’imposta negativa
sul reddito sia più compatibile con la filosofia e gli scopi dei sostenitori
di limitazioni all’intervento governativo e della massima libertà individuale,
piuttosto che con la filosofia e gli scopi dei sostenitori del welfare
state e di un maggior controllo del governo sull’economia”10.
Paradossalmente, sia i neo-keynesiani che i monetaristi si contendono, su i due
lati opposti della discussione, la pertinenza del provvedimento di redistribuzione
appellandosi alla ragionevolezza del provvedimento. Sebbene notoriamente
ambigua, la proposta friedmaniana definisce con massima chiarezza la separazione
tra l’impostazione conservatrice e quella liberale sulla questione della redistribuzione
del reddito. In questo senso, l’espressione conservatrice negative income
tax traduce l’idea di un intervento governativo volto al calcolo redistributivo
nei confronti dei ceti indigenti qualora il reddito personale o familiare risulti
sotto il livello considerato ufficialmente minimo per lo standard di vita, ossia
sotto il livello di sussistenza. In contrapposizione a questo, la denominazione
liberale guaranteed income allowance allude, piuttosto, a un sussidio garantito su base
annuale per colmare una percentuale dello svantaggio sofferto dagli strati più
deboli della società. In che modo? Prevedendo una base economica di protezione
minima, ben oltre quella prevista dalla soglia della povertà e formalmente
separata dal salario.
Questa duplice e contrapposta concezione dei meccanismi redistributivi applicati
al reddito si ritrova costantemente nel dibattito statunitense della seconda
metà degli anni Sessanta11. Un caso a sé in questo dibattito è rappresentato dal
9 H. J. Gans, «Income Grants and ‘Dirty Work» in The Public Interest 6 (Inverno), 1967: 110-113.
10 Friedman, M. in Congressional Digest, vol. 46, n. 10 (Ottobre) 1967: 240 (estratto dell’intervento
al National Symposium on Guaranteed Income del Dicembre 1966).
l’intervento dell’economista indipendente R. Theobald, che prospetta una versione
del guaranteed income basata sul concetto di “diritto assoluto” (244).
Theobald sottolinea che
“la discussione del concetto di reddito garantito senza un’idea del reddi
to di mantenimento è drasticamente incompleta” (246)
e indica la necessità di
“riconoscere che il presupposto neoclassico è un mito e, dunque,
costringe a riesaminare le nostre convinzioni circa la distribuzione del
reddito” (ib.).
Un approccio che, a distanza di mezzo secolo, mostra ancora tutta la sua originalità.
Queste tensioni contrapposte nel concepire la redistribuzione del reddito si
ritrovano anche nella proposta avanzata dal senatore Daniel Patrick Moynihan,
con cui si inaugura la ripresa delle proposte di riforma del welfare nella prima
metà degli anni Settanta. La forma di redistribuzione del reddito avvocata da
Moynihan è ancora centrata sulla necessità di introdurre un reddito supplementare
per gli strati più svantaggiati della società americana, teso a risolvere il problema
della povertà. Moynihan evidenzia il lungo e contraddittorio percorso del
dibattito intorno alle proposte di riforma del welfare, ripercorrendo le vicende
politico-parlamentari che portano alla bocciatura del ‘Piano di assistenza alla
famiglia’ (Fap, Family assistance plan) da parte del Congresso tra il 1969 e il 197012.
Il Piano, nelle intenzioni dei suoi sostenitori, doveva rappresentare il primo
esempio di legislazione in cui un reddito fosse garantito come diritto di base per
tutte le famiglie con figli a carico, un provvedimento di sostegno per i cosiddetti
componenti dello strato dei percettori di reddito basso (low income) e dei lavoratori
poveri (working poor). Il Piano prevedeva l’introduzione di un reddito di
mille e 600 dollari (più i cosiddetti food stamps, ossia timbri per il cibo per un valore
di circa 800 dollari annuali) per una famiglia di quattro componenti.
L’accettabilità del provvedimento dipendeva, in primo luogo, dalla disponibilità
al lavoro da confermare attraverso la registrazione presso un ufficio di servizio
per l’impiego e, in secondo luogo, dalla capacità di adattarsi ai processi di riqualificazione
(formazione e training). Sebbene presentato sotto l’insegna della strategia
di redistribuzione (definita dall’amministrazione Nixon come Income strategy)
e della lotta alla povertà, il provvedimento rimane legato alla volontà di arginare
il problema della dipendenza dal sistema del welfare, collegando l’assistenza
economica alla disponibilità al lavoro degli eventuali percettori.
11 Nel già citato Congressional Digest, vol. 46, n. 10 (Ottobre), 1967: 225-256, si possono leggere i
pro e i contro sulla questione delle varie forme di redistribuzione del reddito, con interventi dei parlamentari
C. W. Whalen, T. B. Curtis e T. M. Pelly, dei rappresentanti della coalizione Americans for
Democratic Action, del leader del sindacato W. P. Reuther, dell’organizzazione industriale National
Association of Manufactures, del giornale Washington Star, e dei già citati M. Friedman e J. Tobin.
12 D. P. Moynihan, The Politics of a Guaranteed Income: The Nixon Administration and the Family
Assistance Plan, New York, Random House, 1973.
Con la presentazione e la sconfitta sul terreno legislativo del Family assistance
plan, il lungo percorso di riforma del welfare degli anni Sessanta e Settanta tocca
il suo punto apicale e, contemporaneamente, inizia il suo declino13. La proposta
di una radicale redistribuzione del reddito viene ormai largamente ricondotta
alla disponibilità al lavoro. La lotta alla povertà rimane, così, intrappolata in
una terra di confine, sospesa tra la strategia di supporto per gli strati più svantaggiati
della società e i meccanismi di redistribuzione legati al lavoro.
L’esplosione della crisi fiscale nella seconda metà degli anni Settanta suona il
requiem per le proposte di redistribuzione del reddito, il cui tramonto definitivo
sarà segnato, a partire dal 1982, dall’opera di demolizione progressiva del sistema
welfaristico dell’amministrazione Reagan.
Il modello di lavoro della società statunitense degli anni Sessanta e Settanta,
non va dimenticato, è quello di una prestazione a posto fisso, le cui politiche
socio-economiche considerano centrale l’obiettivo di ridurre la disoccupazioneinnanzitutto creando nuovi posti di lavoro. È un’economia che ragiona sui criteri
propri del fordismo, là dove il welfare è pensato come sistema di garanzie
per lavoratori fordisti. Il posto fisso è una strategia di produzione di massa e sul
suo orizzonte si definiscono i provvedimenti in materia di politiche del lavoro.
Eppure, l’idea di sganciare il reddito dalla prestazione si è fatta avanti con
momenti importanti di elaborazione.
Oggi, di fronte alla dissoluzione del posto fisso, queste linee di riforma possono
sembrare storia passata, ma è interessante notare quanto il dibattito contemporaneo
ancora si interroga sulla necessità di vincolare l’erogazione di reddito
alla disponibilità a lavorare. In realtà, oggi questo tipo di questioni sono superate
nei fatti e la redistribuzione del reddito è piuttosto ripensata a partire dal-
l’attuale forma di produzione e dal tipo di lavoro egemone, il lavoro flessibile.
Una fase, quella attuale, in cui la convergenza dei fenomeni della povertà e della
disoccupazione nelle forme generali del lavoro flessibilizzato mostrano, sino in
fondo, l’inadeguatezza dei sistemi redistributivi vigenti. La deregolamentazione
e destrutturazione del mercato del lavoro, la crescita delle disuguaglianze salariali,
l’aumento vertiginoso delle forme di flessibilità nel rapporto di lavoro,
l’accelerazione dei processi di smantellamento del welfare state, la crescita delle
divaricazioni nella ricchezza e, di nuovo, il costante aumento della povertà
pongono l’urgenza di una ridefinizione degli istituti di protezione sociale.
Spesso considerata una proposta utopica, l’introduzione del reddito di base si
13 La caduta in un vicolo cieco dovuta alla bocciatura ad opera della Senate finance committee del Piano
di lotta alla povertà traspare nelle reazioni al libro del senatore Moynihan: si veda Hausman, L. J.,
«The Politics of a Guaranteed Income: The Nixon Administration and the Family Assistance Plan
– A Review Article» in The Journal of Human Resources 8 (4), 1973: 411-421; Haron, H., «Review of
(The Politics of the Guaranteed Income)» in The Yale Law Review 82 (8), 1973: 1725-1735; Williams,
W., «The Continuing Struggle for a Negative a Income Tax: A Review Article» in The Journal of
Human Resources 10 (4), 1975: 427-444. Un’analisi dal versante politico del welfare e delle ricadute
delle riforme mancate su di esso è condotta da Noble, C., Welfare As We Know It: A Political History
of the American Welfare State, New York, Oxford University Press, 1997. In decisa opposizione alla
difesa del welfare state di tipo liberal, un resoconto critico e una disamina delle vicende legate ai programmi
di assistenza pubblica delle amministrazioni democratiche e conservatrici è fornito da
Piven, F. Fox, e R. A. Cloward, Regulating the Poor: The Function of Public Welfare, New York, Pantheon
Books, 1971 (2 ° ed. ampliata nel 1993).
configura come un’ipotesi concreta per il presente, un’ipotesi che rispondeall’attuale congiuntura sociale, politica ed economica. È necessario riavvicinarci
all’esperienza storico-politica della War on poverty con lo sguardo rivolto al
presente, consapevoli che gli elementi che lì sono emersi quali tratti politici di
fondo costituiscono ancora oggi un passaggio obbligato. Il reddito di base per
tutti, nei suoi tratti generali, continua come allora ad alludere al rinnovamento
delle istanze democratiche della società, all’idea di una democrazia concretamente
praticata14. Quegli anni di riforma sociale, in effetti, richiamano alla
nostra immaginazione il senso di una opportunità mancata, di una democrazia
ancora incompiuta. Al posto della democratizzazione della società alla quale
quelle riforme facevano riferimento si è piuttosto assistito alla crescente polarizzazione
della società post-welfarista e post-fordista. Una società strutturalmente
inibita ad affrontare e risolvere i propri problemi con gli strumenti
messi a disposizione dal sistema di protezione sociale ancorato a una configurazione
socioeconomica (quella fordista) ormai superata nei fatti. L’urgenza di
rinnovamento in senso postfordista del sistema di garanzie in una società in
cui la precarizzazione della forza lavoro è evidentemente rafforzata dalla crescente
povertà e dalla tendenza alla polarizzazione economica che le statistiche
ufficiali ormai mostrano con preoccupazione (Eurostat, Income poverty and
social exclution in Eu25, Population and social condition, 2005).
14 La necessità di ripensare le sperimentazioni sul terreno della redistribuzione del reddito promosse
negli anni Sessanta e Settanta, seppur legate alla variante della negative income tax, è argomentata
con forza nelle ricostruzione di uno dei più convinti sostenitori del basic income: Widerquist, K,
«A Failure to Communicate: What (If Anything) Can We Learn from the Negative Income Tax
Experiments?» in The Journal of Socio-Economics 34, 2005: 49-81.
Due modelli
di sostegno
al reddito
Il reddito garantito in Europa
Sistemi di protezione del reddito
nell’Unione europea
Abbiamo visto che gli Stati uniti si sono interrogati per due decenni sull’opportunità
di introdurre un reddito garantito come misura strutturale del loro welfare.
Negli stessi anni, tra i Sessanta e i Settanta, iniziano le prime iniziative legislative
di sostegno al reddito anche in Europa. Queste iniziative rispondevano
alla necessità di costruire un modello di welfare che, in materia di sicurezza
sociale, sapesse far fronte ad uno sviluppo industriale in cui, per la prima volta
dal dopoguerra, la crescita economica non si accompagnava ad un abbassamento
dei tassi di disoccupazione, ma dove invece la disoccupazione diventava un
fenomeno strutturale che accompagnava lo sviluppo economico. Si andava delineando
nella società fordista di allora un segmento sociale strutturalmente
escluso dal ciclo produttivo: quello dei disoccupati di lunga durata.
In molti paesi europei, si istituiscono dispositivi legislativi di sostegno al reddito.
I paesi che vi ricorrono sono la Germania e l’Olanda intorno agli anni
Sessanta; la Danimarca e il Belgio negli anni Settanta; la Finlandia, la Francia, la
Gran Bretagna e la Svezia negli anni Ottanta; l’Italia, l’Irlanda, il Lussemburgo,
la Spagna, il Portogallo e la Grecia negli anni Novanta. Nei differenti schemi
normativi che istituiscono tali dispositivi, in relazione alla congiuntura storica e
alla cultura dei paesi in cui essi prendono forma, possiamo individuare alcuni
principi cardine.
L’orientamento politico generale si divide in due campi, o linee di tendenza. La
prima considera le fasce d’esclusione sociale come risorsa produttiva, su cui la
collettività deve investire, attraverso la proposizione di una ricollocazione qualificata
dell’individuo nella società e nel mercato del lavoro. Essa punta, inoltre,
all’ampliamento delle opportunità sociali dei soggetti e ad un aumento del
potenziale di ‘occupabilità’ degli individui beneficiari. Tale orientamento, di
matrice più liberale e solidaristica, è tradizionalmente riconducibile al modello
di welfare introdotto nei paesi del nord Europa.
Una seconda linea di tendenza, invece, si orienta soprattutto al contenimento
e al controllo dei segmenti di marginalità sociale, attraverso l’istituzione di
obblighi e sanzioni per i beneficiari, che si basano su criteri fortemente limitati
d’accesso e durata delle erogazioni. In questo caso si riscontra la tendenza a
creare una rete di sicurezza sociale tesa a mantenere le fasce di marginalità entro
certi limiti d’indigenza e in condizioni di vita socialmente controllate. Questo
approccio più restrittivo è riconoscibile nel modello di welfare di stampo anglosassone.
Indipendentemente dalle ispirazioni di fondo, i sistemi di protezione sociale in
Europa sono caratterizzati anche da alcuni importanti elementi comuni, da
alcune regolarità che si presentano all’osservazione. Va considerata, innanzitutto,
la comune distinzione degli interventi su due livelli, uno avente natura previdenziale
(finanziato con i contributi dei lavoratori), l’altro avente natura assistenziale
(finanziato attraverso la fiscalità generale).
Il primo di questi livelli risulta organizzato attorno ai cosiddetti sussidi di disoccupazione,
considerati come un tassello delle politiche per l’occupazione, definite
anche politiche attive del mercato del lavoro. Esse prevedono interventi di formazione
professionale, sostegno alla nuova imprenditorialità, creazione diretta di
lavoro nel settore pubblico, servizi per la ricerca di lavoro15. Le politiche per
l’occupazione sono rivolte, sostanzialmente, ad arginare il rischio che i soggetti
sociali in stato di disoccupazione divengano disoccupati strutturali, non riuscendo
a ricollocarsi nel mercato del lavoro.
Il secondo livello, organizzato attorno alle varie tipologie di “reddito minimo”,
è costituito dalle politiche contro l’esclusione, ossia dalle cosiddette politiche passive,di
cui fanno parte tutte quelle misure di politica sociale che non si pongono l’obbiettivo
di incidere sulle cause della disoccupazione, e che mirano piuttosto alla
creazione di una rete di ultima istanza, definita safetynet, per il contenimento del
rischio di povertà assoluta (Allegato: Gli indici di povertà: dettaglio statistico) in cui
alcune fasce sociali possono incorrere. Le politiche passive sono finanziate
attraverso un fondo assistenziale, implementato dalla fiscalità generale, posto a
garanzia di un livello minimo di reddito, previo accertamento dello stato di
bisogno.
Va segnalato, per l’importanza che riveste nell’analisi del welfare europeo, il
Mutual information system on social protection (Missoc). Si tratta di uno strumento
istituito nel 1990 per promuovere un continuo scambio d’informazioni
in tema di protezione sociale tra i Paesi della Ue. Si basa su una cooperazione
tra i Ministeri del lavoro e della protezione sociale degli Stati membri, ciascuno
dei quali, tramite uno o due corrispondenti nazionali, provvede ad inviare
periodicamente al Missoc le informazione relative all’evoluzione dei propri
sistemi di protezione sociale. Il Missoc produce regolarmente tabelle comparative
e bollettini. Nella presente ricerca, quando saranno richiamate alcune caratteristiche
di specifici sistemi di welfare nazionale, si dovrà intendere che la
fonte, salvo diversa indicazione, sia stata Missoc, Mutual Information System
on Social protection in the Ue Member States and the Eea, 2005 (http://europa.
eu.int/comm/employment_social/social_protection/missoc_en.htm), che
si trova tradotto in allegato al presente lavoro (Allegato: Sistemi di protezione
del reddito in Europa).
Di solito le misure che hanno carattere previdenziale (come i sussidi o le indennità
di disoccupazione) sono calcolate, quanto all’ammontare, come una quota
percentuale dell’ultima retribuzione percepita. Si tratta, quindi, di una misura
idonea ad evitare che una persona temporaneamente disoccupata possa
improvvisamente mutare le proprie condizioni reddituali. A titolo di esempio,
osserviamo che in Belgio tale indennità è pari al 60 per cento dell’ultima retribuzione,
in Danimarca pari al 90 per cento, in Germania pari al 60-67 per cento,
in Francia pari al 59 per cento circa. In Spagna l’ammontare del sussidio varia
secondo l’anzianità contributiva vantata dal richiedente e secondo la retribuzione
percepita. Fa eccezione il Regno Unito, dove l’ammontare del sussidio è pari
a una somma forfetaria, non particolarmente generosa.
Il monitoraggio del
Missoc
Le misure
previdenziali
in Europa
15 Oecd, Employment Outlook, 1999 (www.oecd.org).
Le misure
assistenziali
in Europa
Tra i criteri di accesso alla misura è previsto, oltre allo stato di disoccupazione,
anche la sussistenza di una certa anzianità contributiva: occorre, in altri termini,
aver lavorato regolarmente per un certo periodo anteriore allo stato di disoccupazione.
La disponibilità ad accettare impieghi ritenuti idonei è quasi sempre
richiesta al beneficiario, che può essere sottoposto a sanzioni in caso di rifiuti
immotivati e reiterati. L’erogazione del sussidio è solitamente limitata nel
tempo, salvo eccezioni, come ad esempio quella della Germania, dove l’indennità
di disoccupazione diminuisce dopo un certo periodo di inattività, ma poi
rimane priva di limiti temporali, salve verifiche annuali circa il permanere delle
condizioni. In Francia la misura viene erogata per un periodo che va da uno a
cinque anni secondo i casi, in Danimarca dura un anno rinnovabile per altri 3,
in Spagna va da 4 mesi a 2 anni, nel Regno Unito dura 6 mesi per ogni periodo
di disoccupazione, ma è illimitata se si dimostra lo stato di bisogno.
La misure di ultima istanza (safetynet) hanno, invece, una logica diversa rispetto
ai sussidi di disoccupazione. Prendono nomi diversi nei vari Paesi europei
(Sozialhilfe, Renta minima, Revenue minimun d’insertion, et cetera), ma hanno caratteristiche
comuni piuttosto evidenti. Tutte sono destinate a fronteggiare situazioni
di bisogno e di povertà, prescindono quindi dall’indagine circa la sussistenza
o meno di un’anzianità contributiva da parte del beneficiario. Hanno lo
scopo di indurre una fuoriuscita dalla povertà, perciò il loro ammontare è determinato
in una cifra fissa, tale da garantire un livello minimo di benessere, e non
è contemperato il riferimento all’ammontare della eventuale passata retribuzione.
Solitamente non sono previsti meccanismi di decadenza dalla misura (ad
esempio a causa di comportamenti non collaborativi da parte del beneficiario),
né vi sono termini temporali scaduti i quali si interrompe l’erogazione.
L’ammontare del beneficio, salvo eccezioni (come i paesi mediterranei), si aggira,
per una famiglia composta da quattro membri, in una cifra che oscilla tra i
mille e i mille e 500 euro. Sovente alle misure di ultima istanza di carattere
monetario, si affiancano interventi di sostegno specifici, ad esempio per quanto
riguarda il reperimento di un alloggio e la garanzia di cure mediche e altri
beni di base.
Dimensione e misura del sostegno al reddito
Data un’articolazione comune, a livello europeo, circa i due tipi di prestazione
(previdenziale e assistenziale) e una specifica applicazione per ogni paese, possiamo
individuare due indicatori in grado di descrivere le macrodimensioni dei
modelli di sostegno al reddito, definendo quattro tipologie di modelli. I quattro
modelli sono: Anglosassone, comprendente Gran Bretagna e Irlanda, Scandinavo,
comprendente Danimarca Finlandia e Svezia, Centroeuropeo comprendente
Francia Austria Belgio Germania e Olanda, Sud-europeo comprendente Grecia
Italia Portogallo e Spagna. Per una trattazione più estesa rinviamo a Massimo
Mancini, I sistemi di protezione del reddito dei disoccupati in Italia tra politica sociale e
strategia per l’occupazione. Analisi e confronti internazionali (Isfol, 2000).
Estensione sociale: è un indicatore che misura l’estensione del bacino dei
beneficiari; l’estensione sociale della misura di sostegno del reddito è tanto
maggiore quanto più ampio è lo spettro di ipotesi in relazione alle quali il reddito
viene erogato; in particolare incidono su questo indicatore le soglie di ricchezza
a partire dalle quali scatta l’integrazione del reddito, nonché l’insieme
delle condizioni di decadenza cui l’integrazione stessa è sottoposta (più la misura
è incondizionata maggiore può essere considerata la sua estensione sociale).
Intensità redistributiva: misura della generosità del provvedimento, ossia il
suo ammontare complessivo in termini monetari e/o in termini di erogazione
in natura di beni e servizi.
Tabella 1
Criteri per la valutazione dei provvedimenti di protezione del reddito
Estensione sociale
Limitazioni di accesso al reddito in base a
discriminanti di ordine sociale
(etnico, di genere, generazionale,
socio-economico)
Vincoli per il mantenimento dell'erogazione
legati all'accettazione di lavoro, di formazione
coatta e di means test
(forme di controlli sociali)
Intensità
redistributiva
Erogazione monetaria (reddito diretto) e di
beni e servizi primari (reddito indiretto) rispetto
alla capacità di autosufficienza dei soggetti
Limiti temporali all'erogazione di reddito
relativamente alla condizione
degli individui percettori
Possiamo considerare parametri dell’estensione sociale, i limiti di accesso al reddito,
in base a discriminanti di ordine sociale: criteri di residenza, età, condizioni
economiche, volontarietà della disoccupazione, ma anche vincoli di mantenimento
dell’erogazione (legati all’accettazione di lavoro, alla formazione
coatta, agli esami di accertamento dei mezzi di sostentamento effettivi - means
test).
Possiamo, altresì, considerare parametri dell’intensità redistributiva i limiti temporali
imposti all’erogazione di reddito e l’entità dell’erogazione, sia essa erogazione
monetaria diretta o erogazione indiretta di beni e servizi. Utilizzando questi
indicatori si evince che, comparativamente, il modello Nord europeo si
caratterizza per un importante investimento della spesa pubblica nel sostegno
al reddito dei disoccupati, e per una maggior durata e generosità dell’erogazione
rispetto alle altre aree europee. Al suo opposto, troviamo il modello Sud
europeo, caratterizzato da bassi livelli di investimento in spesa sociale, scarse
prestazioni, assenza, pressoché totale, di reti di ultima istanza. Doverosa la precisazione
a questo proposito, circa il caso spagnolo: a partire dalla seconda
metà degli anni Novanta, coerentemente con la raccomandazione 411/9216
del Consiglio di Lisbona, la Spagna ha introdotto alcune forme di reddito
minimo, mentre Italia17 e Grecia non prevedono, attualmente alcuno schema
di safetynet. Il modello Centroeuropeo, dal canto suo, ha uno schema molto
incentrato sul sistema contributivo (o assicurativo), quindi più simile ai paesi
Sud-europei, ma prevede sistemi di protezione di gran lunga più estesi e arti-
colati, nonché più generosi rispetto all’intensità delle erogazioni. Infine, il
quarto modello, quello Anglosassone, si distingue per la consistenza del-
l’aspetto intensivo dell’erogazione, rispetto alla durata, mentre risulta lacunoso
e rigido sugli altri aspetti.
Nella tabella 2 si propone un prospetto sintetico che illustra il funzionamento
dei modelli di sostegno al reddito adottati dai paesi europei, in base ai due
indicatori evidenziati.
Tabella 2
Confronto tra modelli di protezione del reddito nei sistemi europei
Modelli di
protezione del
reddito
Estensione sociale Intensività redistributiva
Libertà d’accesso Libertà da vincoli Quantità Durata
Anglosassone + + + + + +
Scandinavo + + + + + + + + + + + +
Centroeuropeo + + + + + + + + +
Sudeuropeo + + + +
LEGENDA
+ Insufficienza
+ + Media sufficienza
+ + + Elevata sufficienza
16 Tra le altre cose essa si rivolgeva a quei paesi sprovvisti di rete di ultima istanza chiedendo di
prevedere nei propri ordinamenti tale meccanismo necessario ad evitare la caduta in situazioni di
povertà ed esclusione sociale.
17 L’Italia ha introdotto nel 1998 una sperimentazione del reddito minimo di inserimento che ha riguardato
268 comuni la cui trattazione verrà approfondita nel successivo paragrafo.
Trasformazione dei modelli europei di sostegno al reddito
Quale che sia l’articolazione specifica degli schemi di sostegno al reddito, in tutti
i paesi europei, dalla fine degli anni Ottanta, i vari sistemi entrano in una crisi di
natura prettamente finanziaria, trovando difficoltà a far fronte alle esigenze di
protezione sociale per cui erano nati. Le trasformazioni produttive dei tardi anni
Settanta, con i mutamenti sociali che ne sono derivati, hanno dato l’avvio ad un
processo di progressiva precarizzazione della forza lavoro, hanno messo radicalmente
in discussione i presupposti fondanti l’impianto legislativo della protezione
sociale fino ad allora prodotta. Ciò che diviene inattuale sono quegli elementi
connotativi delle società fordiste oramai inadeguati rispetto alla contemporaneità
sociale. Inizia una stagione di riforme legislative. Al fondo di queste esigenze
legislative c’è quella di interpretare il radicale cambiamento che sta coinvolgendo
l’economia del lavoro. Le dicotomie che dividono in modo netto lo stato
di occupazione da quello di disoccupazione sono sempre meno adeguate a
descrivere la realtà del lavoratore flessibile. Parallelamente le forme dell’esclusione
sociale si ampliano ad una pluralità di soggetti (poor workers, giovani, immigrati,
donne sole con figli, disoccupati di lunga durata): gli espulsi dalle trasformazioni
tecnologiche del ciclo produttivo. Un nuovo contesto sociale dove l’obbiettivo
dell’inserimento lavorativo perde lo status privilegiato fino ad allora riservatogli
quale riferimento ineludibile delle forme di protezione sociale.
Allo stato attuale, la ricaduta materiale di questi cambiamenti mostra, in tutta
Europa, un crescente bisogno di misure di sostegno al reddito. Il fenomeno del-
l’esclusione dal mercato del lavoro non interessa solo un’esigua minoranza di
soggetti, come già nel 1992 emergeva nel Consiglio europeo di Lisbona18. I processi
di esclusione sociale e i rischi di povertà sono divenuti più diffusi e diversificati,
la polarizzazione economica della società è tornata, negli ultimi anni, ad
essere una caratteristica centrale delle società occidentali. La flessibilità del mercato
del lavoro e, con essa, la quantità di soggetti che, alternativamente, transitano
in una condizione di “disoccupazione”, è verticalmente cresciuta. La deregolamentazione
contrattuale del lavoro precario rende i salari insufficienti a garantire
livelli di guadagno che siano al di sopra della soglia di povertà, anche per
molti soggetti in condizione di “occupazione”. Tutto questo ha come ulteriore
conseguenza, specialmente nel Sud dell’Europa, una crescente polarizzazione tra
i soggetti protetti, perfettamente inseriti nel sistema di garanzie di tipo fordista
(cioè alla partecipazione al mercato del lavoro), e strati sottoprotetti o privi di
protezioni.
A testimonianza del riconoscimento di questi mutamenti strutturali, si possono
citare i documenti della Commissione europea, nei quali si prende ampiamente
atto che il mercato del lavoro ha visto l’affermarsi di nuove forme di contratto
e di organizzazione del lavoro. In essi, si ricorda l’incidenza dei nuovi rapporti
lavorativi flessibili, delle forme contrattuali atipiche, da cui deriva il diffondersi
di percorsi lavorativi discontinui e diversificati. Si riconosce un orientamento
Le trasformazioni
produttive
e l'emergere di
nuove esigenze di
protezione sociale
Orientamenti
strategici
dei paesi europei
18 Si veda, del Consiglio d’Europa, la raccomandazione 411 del 24 giugno 1992.
della produzione sociale verso la centralità della conoscenza ed il controllo delle
tecnologie comunicative e informazionali. Si indica, inoltre, una tendenza generale
verso società multietniche e multiculturali, in virtù di una presenza sempre
più consistente di immigrati. Si ridefinisce, infine, il concetto di famiglia, in direzione
monoparentale e monocomponente19.
Nonostante ciò, nell’agenda politica dei singoli paesi, nelle linee di indirizzo proposte
a livello comunitario20, nelle riforme introdotte che pur si susseguono in
questi anni, non sembra si colgano le ricadute materiali di tali riconoscimenti. Il
senso delle riforme dei sistemi di sostegno al reddito, avvenute a partire dalla
fine degli anni Novanta, assume, da un punto di vista tecnico, la forma di provvedimenti
volti esclusivamente ad un riequilibrio finanziario. Infatti, anche se lo
schema contributivo risulta sempre più inadeguato rispetto alle richieste dei soggetti
(tra periodi di occupazione e disoccupazione), tenendo anche conto della
perdita del potere d’acquisto dei salari21, ci troviamo di fronte ad una generale
tendenza delle politiche europee a restringere progressivamente le maglie degli
strumenti di protezione del reddito. Tale restringimento avviene su tutti i livelli.
Lo strumento normativo utilizzato è quello dell’introduzione dei cosiddetti incentivi
all’attivazione sociale, che hanno come scopo di favorire l’inserimento lavorativo
dei beneficiari. Tali incentivi prevedono azioni di natura formativa e lavorati-
va, di promozione sociale, che non costituiscono la reale novità di queste riforme,
come invece lo è l’accento sulla obbligatorietà di queste azioni. Si tende ad
abbandonare la concezione secondo cui sussisteva, in capo allo Stato, un obbligo
a garantire a tutti i cittadini condizioni dignitose di vita. Si prevede ora sempre
più un obbligo, in capo ai beneficiari, a reintegrarsi, di fatto dovendo accettare
qualsiasi offerta di lavoro disponibile in quel momento. Ciò che si sostiene nei
vari progetti di riforma è che, nel mutato contesto produttivo, occorre passare
da uno schema di compensazione passiva ad uno di attivazione sorretta. A tal fine vengono
proposte, nel dibattito istituzionale europeo, teorie economiche di orientamento
neoliberista secondo cui i sussidi sono responsabili di innalzare quei
tassi di disoccupazione che vorrebbero arginare. Secondo queste teorie, il sussidio
incide sull’occupazione, influenzando l’efficacia della ricerca di lavoro da
parte del disoccupato (detta job search theory).22
Su questi presupposti la Danimarca, nel 1997, con l’Active social policy legislation,ha
previsto un maggior carico di doveri per i beneficiari dell’integrazione di reddito
e ha applicato il principio dell’attivazione sociale per i soggetti che beneficiano
dell’assistenza. Nel 1998, la Svezia ha introdotto le stesse modifiche legislative,
approntando programmi di reinserimento per specifiche categorie sociali.
In Olanda, dal 1996, il reddito minimo garantito è diventato un dispositivo unico
che comprende sia il sussidio di disoccupazione che l’assistenza, estendendo
19 Si veda a tale proposito Commissione delle Comunità europee, Social Protection in Europe, 2002,
Lussemburgo.
20 Pan/incl, Piani di azione contro l’esclusione, 2001.
21 Il rapporto più recente al riguardo è del Ministero degli affari sociali finlandese il quale nel 2002
stima che negli ultimi dieci anni il numero degli aventi diritto all’assistenza sociale sono raddoppiati.
22 Layard R., Nickell S., Jackman R., The Unemployment Crisis, 1994, Oxford University Press.
integralmente tutti gli obblighi di inserimento lavorativo ai percettori d’assistenza.
Situazione simile in Gran Bretagna, con la politica del welfare to work.In
Germania, dal 2001, ad ogni rifiuto di “offerta ragionevole di lavoro” viene progressivamente
ridotta la quota percepita del 25 per cento. In Belgio, nel 2002, si
passa dal diritto al minimo di esistenza al diritto all’integrazione sociale.
L’Rmi francese, invece, sembra scostarsi in questo dalla logica di residualità propria
delle reti di ultima istanza. In Francia, nel 1988, il reddito minimo di inserimento
introduceva una concezione di cittadinanza relativamente ampia e non legata
esclusivamente al rapporto dei soggetti con il lavoro. Nell’impianto legislativo di
quella riforma, la garanzia di un reddito minimo d’esistenza risulta derivare da
un diritto dei soggetti, in quanto cittadini, alla propria autonomia sociale e professionale.
Nel 2003 il reddito minimo d’inserimento è stato riformato in reddito
minimo di attività, che prevede la possibilità di versare al datore di lavoro una
somma in cambio dell’inserimento lavorativo del beneficiario oppure azioni
d’inserimento concordate tra l’assistenza sociale e il datore di lavoro. Un provvedimento
di questa natura, evidentemente, pone la necessità di un ripensamento
profondo del diritto del lavoro23.
Criticità dei sistemi di sostegno al reddito europei
Complessivamente il profilo degli impianti di riforma qui descritti24 si dimostra
solo in parte sufficiente rispetto alle premesse dalle quali ha preso avvio il dibattito
politico europeo. Come si evince dalle relazioni della Commissione europea
e dai Piani di azione nazionali, se il rischio di esclusione oltrepassa alcune specifiche
fasce sociali, per divenire fenomeno tendenzialmente esteso, i provvedimenti
normativi di riforma adottati dai vari paesi comunitari sembrano voler
affrontare, non i fondamenti di governance della questione, ma alcuni suoi effetti
secondari. Ci si rende conto, d’altro canto, che l’aumento significativo dell’esclusione
sociale crea oggettive difficoltà alla capacità dei fondi d’assistenza, già capitolo
esiguo nei bilanci statali.
Il pericolo reale è un ulteriore peggioramento della condizione di molti cittadini
europei e delle prospettive di sviluppo economico per l’intera area. Infatti, anche
nel succitato ricorso alla job search theory, si tralascia un suo aspetto particolarmente
attuale. Quello secondo il quale, quanto è maggiore il sussidio percepito
dai beneficiari, tanto più le imprese aumenteranno i salari. Quando la politica
dell’attivazione assume i caratteri dell’obbligo (cui corrisponde una sanzione), si
spingono gli individui verso lavori di basso profilo e si possono creare disuguaglianze
contrattuali rispetto a mansioni simili, oltre che situazioni di dequalificazione
professionale. Non è un caso che, in un recente rapporto della Commissione
europea, si invitano gli Stati a fare del lavoro “una opzione reale” per tutti, evi-
Il caso francese
23 De Rita C. Monaldi G., Orientamenti europei in materia di sicurezza sociale: una rassegna dei dispositivi di
ultima rete, Isfol, 2004.
24 Tranne per Lussenburgo e la Finlandia i Pan non prevedono alcuna aggiunta di risorse ai fondi
per i sistemi di assistenza sociale.
Il rischio di povertà
in Europa
tando la trappola rappresentata dai lavori con bassi salari e di bassa qualità25.A
questo, si aggiunga che le condizioni del mercato del lavoro, ora descritte, creano
anche per il sussidio di disoccupazione erogato su base contributiva, una
seria empasse rispetto a questi problemi.
Per i paesi del Sud-europa, in ritardo storico rispetto agli altri, esiste un’ulteriore
problematica aggravante: là dove si vogliano avviare politiche in direzione di
un intervento avanzato di protezione al reddito, la sostenibilità finanziaria e la
garanzia dell’universalità dei diritti di cittadinanza devono confrontarsi con
sistemi di welfare locali ad uno stadio ancora embrionale e con la gestione del
decentramento regionale a fronte di forti disomogeneità geografiche.
Attualmente, la distinzione tra politiche attive (sussidio di disoccupazione) e politiche
passive (reddito di ultima istanza) risulta difficilmente praticabile, mentre la
polarizzazione economica allarga la fascia della marginalità, indebolendo la
capacità del lavoro di essere strumento d’integrazione reale. A fronte di una
necessità finanziaria a ridurre le spese sociali da parte dello Stato, si fanno avanti
problemi assai più gravi a medio e lungo termine, quello della disgregazionesociale e l’estensione senza limite della povertà. È chiaro che una politica nonpuò coesistere all’altra. È chiaro che le urgenze del bilancio statale sono in controtendenza
con il diffuso bisogno di sicurezza socio-economica, ma i rischi
connessi all’impoverimento di strati ampi di popolazione possono rivelarsi fattori
di instabilità e di decrescita per l’intera società, i cui danni sarebbero facilmente
immaginabili. Di fatto, la domanda sociale di strumenti di garanzia del
reddito è in crescita. D’altro canto, se questi strumenti non sono finalizzati alle
corrette priorità -la necessità di equilibrio nel livello dei consumi e del potere
d’acquisto dei salari- rischiano, da parte loro, di aggravare le problematiche
sociali alla cui risoluzione sono chiamati. Una politica tesa all’inserimento lavorativo
dei beneficiari, se mal calibrata, può di fatto incentivare, anziché contrastare,
il ricorso alla precarietà nel mercato del lavoro e la tendenza alla dequalificazione
del lavoratore e all’abbassamento dei salari.
Secondo i dati diffusi di recente dall’Eurostat26, il rischio di povertà riguarda
oggi ben 72 milioni di europei, ossia il 16 per cento della popolazione complessiva.
Il rapporto dell’Eurostat fotografa una situazione sociale per il continente
critica, contrassegnata da forti disuguaglianze e da livelli crescenti d’indigenza e
di bisogno. Si calcola che il 20 per cento della popolazione più ricca percepisca
un reddito annuo superiore di ben 4,6 volte rispetto al 20 per cento della popolazione
a più basso reddito. La situazioni a rischio povertà, calcola l’Eurostat,
vengono solo in parte fronteggiate dalla spesa sociale. Infatti, senza le prestazioni
assistenziali, il rischio povertà potrebbe interessare un fetta più cospicua
di popolazione, pari al 25 per cento del totale europeo.
I sistemi del welfare, pur indispensabili per garantire un minimo di tenuta sociale
nei nostri sistemi economici sono lontani dal garantire un livello di protezio
25 Commissione delle Comunità europee, Jobs Jobs Jobs. Creating more employment in Europe, 2003,
Bruxelles.
26 Si tratta del rapporto Povertà ed esclusione sociale nell’Ue-25, 2005, basato su dati del 2003
(http://europa.eu.int/comm/eurostat).
ne e di tutela che possa definirsi adeguato. Per far fronte ai problemi posti bisognerebbe
pensare un impianto normativo che vada oltre la distinzione tra “assistenza
ai poveri” e “sostegno ai disoccupati”, ma che tenga conto contemporaneamente
sia della tendenza alla polarizzazione economica della società, sia
delle mutate forme del lavoro divenuto flessibile. Entrambe le prospettive,
attuate singolarmente, non sono esaustive nella risoluzione delle questioni
sociali all’ordine del giorno nel modello di produzione post-fordista.
Redistribuzione
economica
e politica
democratica
Un reddito per tutti
Filosofia generale
del Basic Income
Nonostante le differenze di contesto, le differenti proposte in materia di reddito,
pur divergenti nella realizzazione e nella struttura politico-istituzionale, suggeriscono
la convergenza verso una possibile filosofia generale: quella di presentare
uno schema di redistribuzione del reddito come pilastro fondamentale
di una progressiva democratizzazione della società. Queste proposte dimostrano
come la crescita della povertà e la costante presenza della disoccupazione
strutturale hanno costituito uno stimolo al ripensamento delle forme di allocazione
delle risorse. È in questo contesto che va inquadrato l’apporto fondamentale
delle sperimentazioni abbozzate negli Stati Uniti degli anni Sessanta e
Settanta: un’ipotesi di riforma sul terreno delle politiche distributive che è, allo
stesso tempo, un ripensamento dell’idea di società democratica, perché senza
uguaglianza nei diritti, non solo giuridici, ma anche economici e sociali, non si
può ottenere che una democrazia dimezzata, in effetti amputata. In questa ottica
si intravede la dimensione dell’innovazione introdotta dal riaffacciarsi sulla
scena delle politiche sociali delle proposte di basic income, che sono sempre e
comunque ispirate dalla volontà di riavviare un processo virtuoso di democratizzazione
della società.
Il premio Nobel dell’economia Robert Solow, introducendo una raccolta di
saggi volti alla discussione della proposta dell’istituzione di un Universal basic
income (Ubi), una volta ha scritto:
“Ritengo che valga la pena di pensare prima di tutto alla desiderabilità di
un Ubi. Chi trova l’idea poco attraente nei suoi principi non sarà certa
mente propenso ad accettare nemmeno l’ingegnosa econometria che la
dovrebbe attuare”27.
Solow individua un problema fondamentale del basic income: non si tratta, infatti,
solo di discutere genericamente in merito alla fattibilità pratica della proposta
di un reddito di base, ma di entrare nello specifico dei principi che esso sottende
e valutare le urgenze alla luce di questi. È attraverso la discussione dei
suoi principi cardini che il basic income può legittimamente essere concepito
quale riforma credibile nel campo delle politiche pubbliche. Una volta definiti
questi principi, il compito della dimostrazione formale o statistico-econometrica
circa la sua attuabilità può essere assunto con cognizione di causa e con efficacia,
dunque risolto. Secondo Solow, in sostanza, non si può accettare l’idea
del reddito senza accettare altresì le analisi e le linee teoriche di fondo che lo
hanno precorso. A noi non resta che chiederci qual’è la filosofia che il reddito
garantito sottende? Quali sono questi principi fondamentali sui quali essa può
essere articolata? Cercheremo di dare risposta a questi interrogativi cercando di
27 Solow, R. «Foreword» in Cohen, J. and J. Rogers (eds.), What’s Wrong with a Free Lunch? Boston:
Beacon Press, 2001.
riassumere le traiettorie principali di questa idea di riforma.
Nel precedente paragrafo abbiamo ricostruito le fasi che hanno portato negli
Usa degli anni Sessanta e Settanta alle proposte di guaranteed income. La storia
recente ha dimostrato la legittimità di una riforma del sistema del welfare state,
non solo è un ipotesi possibile, ma una questione di estrema attualità. Su quali
direttrici, allora, è pensabile e strutturabile una proposta di riforma del welfare?
Tracciando una sintesi delle traiettorie dominanti di una filosofia generale del reddito
garantito, proviamo a ragionare sui principi ai quali Solow fa riferimento.
La proposta di introdurre il diritto al reddito garantito a tutti, in primo luogo,
parte dall’assunto che il basic income è un presupposto fondante di una democrazia
che include, quale diritto fondamentale, la redistribuzione sociale dei beni e
dei servizi. Con il termine “democrazia redistributiva” si allude al diritto universale
al reddito come meccanismo di accesso equo alle opportunità offerte, un
diritto spettante a tutti gli individui residenti in un dato paese. L’idea è che sia
possibile vincere la lotta all’inegualianza sociale garantendo in primo luogo l’accesso
alle risorse, una vittoria che rappresenta la necessaria premessa di una
reale democrazia. La garanzia di reddito presuppone la necessità di stabilire
come diritto non alienabile la possibilità per tutti gli individui di accedere a queste
risorse sociali necessarie alla loro sopravvivenza.
Tre le implicazioni fondamentali alla base di quest’idea:
implicazione giuridica: il reddito garantito riconosce quale diritto ineliminabile
di ogni cittadino una quota monetaria e servizi primari necessari alla sua
sopravvivenza;
implicazione economica: il reddito garantito assume come obbiettivo la riallocazione
egualitaria delle risorse socialmente prodotte;
implicazione politica: il reddito garantito, ridefinendo i principi di redistribuzione
delle risorse, presuppone la rifondazione democratica dell’intera società.
1. Il reddito garantito ha come obiettivo esplicito l’estensione dei diritti fondamentali
per ogni cittadino, ovvero l’allargamento di questi diritti sul piano
socio-economico.
L’individuo è riconosciuto come soggetto portatore di diritti non solo a livello
giuridico, ma anche sociale ed economico. Il riconoscimento dei diritti formali
di uguaglianza di fronte alle leggi deve integrarsi con l’estensione della sfera del
diritto anche alle condizioni sociali e alle possibilità economiche degli individui,
o la democrazia rimarrà un progetto incompiuto, imperfetto. Esempi di questi
diritti fondamentali sono l’accesso all’istruzione e a forme di credito agevolato,
il diritto alla casa, ai mezzi pubblici di trasporto, a tutti quei beni e servizi necessari
a colmare i bisogni primari di esistenza degli individui appartenenti ad una
società. La disponibilità sociale di questi beni e servizi ha la funzione di eliminare
le disuguaglianze di base che negano pari opportunità di vita e di sviluppo.
Prospettive
teoriche e
implicazioni
pratiche
dell'introduzione
del reddito
garantito
2. La riallocazione sociale delle risorse primarie, presupposto del reddito garantito,
implica l’allargamento dei property rights oltre la sfera della partecipazione al
mercato.
Il reddito di base garantito rappresenta una riallocazione delle risorse sul criterio
di un property right, un diritto a possedere qualcosa in generale anche prescindendo
dalla posizione lavorativa, etnica, di classe o di genere. Il reddito garantito
è uno strumento di riequilibrio del meccanismo di allocazione delle risorse,
aprendo l’accesso ai beni e servizi necessari per migliorare le condizioni
materiali di vita ad ogni membro della popolazione. In modo particolare quando
si parla di beni e servizi primari alla vita, l’accesso alle risorse non può essere
delegato tout court all’economia di mercato, ad un diritto di proprietà riferito
alla sola sfera dello scambio economico. Allo scambio di mercato è data, in ultima
istanza, l’ultima parola nel decidere della distribuzione delle opportunità per
i membri della società. L’accesso alle risorse, invece, deve essere riconosciuto
quale diritto alla sopravvivenza, indipendentemente dal riconoscimento della
partecipazione del singolo destinatario ai processi economici.
3. Il reddito di base intende ristabilire i principi democratici che riconoscono
eguali opportunità di partenza agli individui.
L’introduzione di un reddito di base può ristabilire la vitalità dei legami sociali,
quei legami in effetti indeboliti da un diritto alla partecipazione sociale ridotto
alla sola partecipazione alla sfera del mercato. Ad una democrazia subordinata
alle leggi del mercato, il reddito di base oppone una democrazia distributiva fondata
sull’uguale accesso alle opportunità. Il reddito di base mira ad una più efficiente
distribuzione delle risorse attraverso la ridefinizione delle politiche pubbliche,
dal momento che queste si sono dimostrate cause di una serie di esternalità
negative che hanno elevati costi sociali per gli individui e per lo Stato28.
È il caso, per esempio, della flessibilità nel lavoro: le imprese, pressate dalla
competizione, tendono a risolvere il problema della compressione dei profitti
scaricandoli sulla forza lavoro. Come conseguenza, ci troviamo di fronte ad una
forte crescita delle forme di precarizzazione e all’insorgenza di domande cui
non è possibile rispondere ricorrendo al sistema di protezione sociale vigente.
L’aumento della povertà, dell’ineguaglianza dei redditi e dell’asimmetrico accesso
alle risorse si sommano a definire un problematico contesto di incertezza
generale. L’istituzione del reddito di base semplificherebbe di fatto i meccanismi
di protezione sociale nei quali le spese dirette a contrastare i fallimenti di
mercato avrebbero un’enorme incidenza nella riduzione di queste esternalità
negative della produzione flessibile.
28 Nell’economia dei costi di transazione, originata dai lavori pionieristici del premio Nobel
Ronald Coase negli anni Sessanta, si intende per negative esternalities quelle azioni delle imprese che
producono effetti dannosi nei confronti di terzi, come ad esempio l’inquinamento tossico che
danneggia gli abitanti di un quartiere vicino, oppure quello del rumore degli aeroplani che danneggiano
i possidenti di abitazioni costruite nelle vicinanze dell’aeroporto. Si veda Coase, R. H.
«The Problem of Social Cost» in Journal of Law and Economics 3 (1) (1960): 1-44.
A fronte dei nuovi e problematici scenari dell’economia l’introduzione di un
reddito di base garantito intende perseguire l’obiettivo di una democrazia redistributiva,
di rinnovare il rapporto tra democrazia e giustizia economica.
L’obiettivo finale è l’accrescimento sostanziale della libertà degli individui, nella
possibilità di scegliere come orientare le proprie capacità produttive verso quelle
attività più consone alle proprie aspirazioni. La garanzia del reddito offre
opportunità altrimenti negate. Essa implica, con la riallocazione dei beni e dei
servizi, anche una più adeguata allocazione delle risorse umane.
La redistribuzione delle risorse è il legame che tiene insieme democrazia reale e
giustizia economica. E ciò implica l’idea di una radicale riforma del sistema di
garanzie sociali.
Lavoro flessibile, nuovi bisogni sociali
e sistemi di protezione nel post-fordismo
………………………………………………………………………………
Nelle società fordiste del secolo XX, il lavoro stabile rappresentava uno dei passaggi
fondamentali nel ciclo di vita individuale, posto normalmente dopo la fine
degli studi e prima della formazione di una famiglia, più o meno in corrispondenza
dell’emancipazione da quella di origine. Analizzando il ciclo di vita di un
individuo, ci si rende conto che le tappe che lo delineano e lo scandiscono sono
assai diversificate rispetto al passato. Se in passato i percorsi di vita erano perlopiù
omogenei, quando non univoci, oggi essi tendono a differenziarsi enormemente.
Il rapporto tra le scelte personali e le condizioni socio-economiche è
particolarmente stringente per chi è in una condizione di precarietà. Le condizioni
di instabilità economica restringono le possibilità di scelta sul presente: di
norma in queste condizioni si tende a prediligere soluzioni temporanee su ogni
fronte, ma non sono rare le rinunce definitive (come crearsi una famiglia o
avere un figlio).
Il rapporto intermittente e discontinuo con il mondo del lavoro dà origine ad
un nuovo assetto economico-sociale che implica precarietà economica e sociale.
Con l’estendersi della precarietà, il ciclo di vita individuale è divenuto più
articolato e meno certo. Nell’impossibilità di un futuro stabile, si rinvia anche il
momento della formazione di una nuova famiglia. L’impossibilità di ottenere
un mutuo in mancanza di un “posto fisso”, impedisce di intraprendere scelte di
vita importanti. Nello stesso tempo, la formazione, una volta relegata all’età
pre-lavorativa, oggi, sempre più, tende a sovrapporsi, temporalmente, alla fase
del lavoro e del non lavoro: si parla infatti di “formazione continua” dei soggetti.
Nuove categorie si vanno ridefinendo in alternativa alla stretta dicotomia tra
occupato e disoccupato. Categoria con la quale si cerca di definire quello stato incerto
tra il lavoro e il non lavoro, quella zona d’indifferenza tra stato di occupazione
e stato di disoccupazione che è la precarietà. Forme di lavoro a termine, stagionale
o d’inserimento, sono sempre esistite. Si trattava, però, quasi sempre di
forme di lavoro circostanziate nel tempo e relative ad alcuni settori di produzione,
legate cioè alla specificità di alcuni tipi di produzione, come lo spettacolo,
il turismo, l’istruzione eccetera. Questi settori si riferiscono a modelli di produzione
particolari rispetto ai modelli di produzione egemoni nel fordismo, di
cui è un esempio la produzione di fabbrica che richiede una prestazione tutt’altro
che discontinua.
Con la trasformazione post-fordista, questi nuovi settori non sono diventati
necessariamente più importanti rispetto al lavoro industriale classico, ma i
modelli di produzione che essi anticipavano sono divenuti egemoni nel sistema
produttivo dell’economia di servizi. In un certo senso, la temporaneità della
prestazione è stata esportata da questi settori specifici a tutta la produzione di
servizi. La flessibilità si è imposta come modello di riferimento generale per
tutto il mondo del lavoro e la precarietà, per anni circoscritta ad alcune aree
della produzione, ha finito per coinvolgere vasti segmenti di produzione e strati
sempre più larghi di popolazione. Rispetto al dibattito storico sulle forme di
protezione del reddito emergono, nella compagine sociale e produttiva, elementi
che non possono essere sottovalutati e che impongono di guardare al reddito
in maniera originale e adeguata alle recenti trasformazioni avvenute: nuovi
bisogni, nuovi soggetti destinatari. La legislazione sul reddito in merito dovreb
be ritenersi adeguata se risponde alle esigenze dei lavoratori flessibili, dei disoccupati
e di tutti coloro che versano in stato di bisogno. Così essa può aspirare
a realizzare quei principi generali di democrazia. In questo caso, il confronto
con le più significative esperienze legislative europee si dimostra necessario,
anche se queste hanno subito, negli ultimi anni, forti restrizioni in merito alle
condizioni e alla durata del beneficio. Un confronto che permette al legislatore
di affrontare immediatamente questioni pratiche: a chi destinare il reddito di
base? a quanto ammonta la quota monetaria di questo reddito? quando erogarla?
secondo quali modalità? qual’è l’ente deputato ad erogarlo? Più che di risposte
unilaterali, si tratta di comprendere, contestualmente agli ordinamenti giuridici
vigenti nei singoli stati europei, quali forme di protezione sono stati scelti
e quali sono i punti di forza e punti deboli di queste scelte.
L’esperienza della precarietà
Il rischio come orizzonte d’esistenza,
l’incertezza come prospettiva per il futuro
Il primo quadro fin qui delineato ci obbliga a guardare nel concreto alle esperienze
soggettive dei destinatari della protezione del reddito. La flessibilità
frammenta oggettivamente e soggettivamente la composizione della forza lavoro,
delocalizza la produzione e spezza i legami sociali che si stabilivano tra i
lavoratori e tra il lavoratore e il proprio lavoro. Il lavoro flessibile è sempre più
spesso un lavoro individualizzato, dove ognuno gioca per sé, per un tempo
determinato. I costi sociali di questa condizione sono spesso molto alti. Di
fronte alla sequenza potenzialmente infinita di lavori che la biografia di ciascun
lavoratore presenta, parlare di lavoro come professione appare sempre più problematico
e fuori luogo. L’esperienza della precarietà è quella di un attraversamento
discontinuo tra differenti prestazioni e ruoli professionali. Ogni lavoro
è solo una tappa e non sempre cumulabile alle esperienza precedenti. Si può
dire che, per quanto il lavoratore precario viva saltuariamente la propria condizione
lavorativa, in realtà il lavoro è sempre sul suo orizzonte di vita, come presenza
quando lavora e come assenza quando ne è in cerca o si forma nella speranza
di trovarlo.
In questa organizzazione del lavoro, diventa in un certo senso difficile distinguere
il tempo di lavoro dal tempo libero, lo stato di occupazione da quello di
inoccupazione. Sapersi muovere tra le opportunità più differenti, saper scegliere,
saper “fiutare le occasioni”, saper essere “imprenditore di se stesso”, saper
rischiare: tutto questo richiede una pazienza e una saggezza che non vengono
dal lavoro in sé, ma dalle esperienze di vita in generale, per cui si parla sempre
più spesso di individuazione di competenze di base e trasversali. Chi è in condizione
di precarietà deve continuamente riorganizzare questo tempo libero infunzione delle richieste del mercato, delle sue fluttuazioni. È proprio la possibilità
di affrontare questa organizzazione del proprio tempo extralavorativo a
fare la differenza tra le opportunità che ciascun cittadino possiede per trovare
un impiego dignitoso, non ultima la possibilità di contare sul supporto di un
reddito indipendente dalla propria posizione sul mercato del lavoro (aiuti familiari,
rendite). Spesso, quando possono, sono le famiglie d’origine che fanno
fronte a queste esigenze ma, in questo caso, diviene facilmente comprensibile
quanto ciò pesi nel determinare una forte asimmetria tra le opportunità sociali su cui
gli individui possono contare. Chi non ha un solido sostegno economico personale o familiare,
indipendentemente spesso dalle sue capacità e dal suo impegno, difficilmente potrà fare adeguatamente
fronte alla ricerca di una dignitosa allocazione professionale.
La flessibilità, evidentemente, a fronte di questi cambiamenti oggettivi della
produzione, ha una ricaduta estremamente disgregante della coesione interna
alla società. L’esperienza del lavoro flessibile introduce discontinuità profonde
nei percorsi biografici e induce di conseguenza un enorme cambiamento nellapercezione soggettiva del tempo. È un tempo, quello del lavoratore precario,
nel quale non è possibile fare progetti a lungo termine, in cui è necessario stare
sempre in equilibrio sul presente e nel quale non sempre l’accumulazione delle
Asimmetria delle
opportunità
sociali
esperienze lavorative può fornire un vantaggio certo per il domani. Costruirsi
un corposo curriculum vitae non può essere certo equiparato agli scatti di carriera
di epoca fordista: il percorso che esso descrive è più incerto e sfumato.
D’altro canto, anche il datore di lavoro cambia continuamente, ne consegue che
la memoria del passato professionale in condizioni di precarietà, costituisce una
traccia molto delebile che non dà certezze.
Il lavoratore precario vive ai margini del mercato del lavoro. La sua percezione
deriva da questo essere oggettivamente in bilico. Come ricorda U. Beck in un
suo recente lavoro sulle trasformazioni indotte dalla flessibilità sul mondo del
lavoro:
“Sono in molti a pensare che la flessibilizzazione degli orari di lavoro
implichi profonde ripercussioni sulla vita e la convivenza sociale portan
do gli individui a vagare senza mete e senza legami” 29.
Il lavoratore precarizzato30, incarnazione vivente di questa esperienza, transita
continuamente sulla soglia che separa l’inclusione dall’esclusione dalla società.
Il rischio di rimanere fuori è, per lui, costante. Il suo eterno presente è privato
del proprio passato (la memoria professionale) e del proprio futuro (la possibi
29 Beck U., Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Einaudi, Torino, 2000: 113
30 Persone in condizioni di precarietà sono: i disoccupati, i lavoratori in nero, i lavoratori a tempodeterminato, i lavoratori interinali, i lavoratori parasubordinati in genere. È, infatti, sottoposto a
condizioni di precarietà chi è disoccupato e vive di “lavoretti” dall’edilizia al volantinaggio, fino alla
consegna pacchi: colui che approfitta di sporadici “eventi” che possano procurargli lavoro, dunque
reddito. Così come lo è chi rinuncia a cercare lavoro, rifugiandosi nella protezione familiare.
È sottoposto a condizioni di precarietà chi lavora in nero o nel mercato del lavoro “sommerso”,
senza tutele previdenziali, senza copertura sanitaria e senza la garanzia di mantenere il proprio
posto di lavoro.
È sottoposto a condizioni di precarietà chi ha un contratto a tempo determinato, privo delle garanzie
riconosciute ai lavoratori a tempo indeterminato.
È, allo stesso modo, sottoposto a condizioni di precarietà chi ha un contratto di lavoro interinale,
in affitto, in job-sharing.
Sono in generale precari tutti i lavoratori con contratti di lavoro “atipico”. È precario il collaboratore
esterno (Co.co.co) che pur recandosi tutti i giorni -coordinatamente e continuativamentesul
posto di lavoro, non usufruisce di garanzie né di ferie, né di malattia pagata. È precario chi ha
il proprio contratto legato ad un “progetto”, il Co.co.pro. (collaboratore a progetto), il quale può
vedere sfumare il proprio lavoro per mancata accettazione del finanziamento del progetto stesso.
È precario chi è assunto come consulente autonomo (Partita i.v.a.) privo così dei diritti acquisiti
dai lavoratori “interni”: ferie, malattie, contributi. In alcune professioni è invalso il termine freelance
per indicare questo tipo di rapporto di lavoro, particolarmente diffuso nel mondo dell’informazione.
È precario il “socio di cooperativa”, obbligato a compartecipare ai rischi della societàe in bilico tra pagamenti con mesi di ritardo e il rischio di perdere il lavoro. È precario chi vive di
un lavoro socialmente utile (L.s.u.), una forma assistenziale di lavoro, poco remunerativa e a termine,
presente specialmente nel meridione e nella Pubblica amministrazione. È precario chi è
costretto a lavorare solo una parte del proprio tempo (part-time) percependo un salario ridotto,
spesso costretto a produrre uno stesso servizio in un numero minor numero di ore. È anche precario,
però, chi fa uno “stage”, chi è “borsista”, “assegnista”, modalità di assunzione che spesso
sono utilizzate in sostituzione del lavoro interno. È precario chi viene assunto con contratto di
apprendistato,d’inserimento o di formazione-lavoro. È precario, infine, chi intraprende un
dottorato, un assegno di ricerca o borse di studio. Con l’approvazione del Ddl Moratti sullo
stato giuridico della docenza, si abolirebbe la figura di ricercatore a tempo indeterminato, facendo
slittare di almeno cinque anni l’auspicato ingresso in ruolo.
lità di progettare la propria esistenza). Tutto questo non è che il rovescio esistenziale
della medaglia della produzione just in time. Da una recente ricerca
Eurispes31 veniamo a conoscenza che i 2/3 dei lavoratori flessibili denuncia
una situazione di grave difficoltà nel realizzare progetti per il futuro e nel compiere
passaggi decisivi nella propria vita. Per il 66,1 per cento del campione la
flessibilità ostacola la capacità di organizzare progettualmente il proprio futuro,
con una limitazione del proprio impegno in questo senso, unicamente in relazione
alle contingenze del presente.
Bisogna cogliere l’attimo, prendere l’occasione al volo, procurarsi un lavoro o,
al contrario, saper aspettare, non scoraggiarsi, non permettere che l’esclusione
diventi la propria identità sociale, ma allo stesso tempo vivere col rischio di
cadervi irrimediabilmente perché, per dirla con i lavoratori precari: “se perdo
questo lavoro, poi mi presento come disoccupato e, allora, il datore di lavoro
potrebbe non fidarsi di quello che so fare”. Il paradosso di questa situazione, in
effetti, è che se si chiede lavoro quando già lo si possiede, per la legge della concorrenza,
il datore di lavoro è maggiormente disponibile ad assumere, un po’
per togliere un elemento già attivo ad un proprio concorrente, un po’ perché
questo elemento è già “testato” dalla sua presenza attiva sul mercato del lavoro.
Eppure, va detto, la flessibilità è un concetto ambivalente perchè identifica un
processo che, se da un lato individualizza il prestatore di forza lavoro, indebolendone
la forza contrattuale, dall’altro lo libera dalla costrizione del posto fisso.
Quest’ultimo aspetto potrebbe anche produrre, all’opposto, una maggiore valorizzazione
del lavoratore stesso, sganciando la sua vita dalla routine e dalla ripetizione.
Una cosa possibile solo nel caso in cui si avessero delle adeguate garanzie
di vita nei periodi di inattività, senza la preoccupazione per la propria stabilità
economica.
Un’interpretazione restrittiva della flessibilità, intesa come mero fattore di instabilità
e mai come possibilità di liberazione di energie soggettive del lavoratore,
fa trapelare una visione destinata al fallimento oggettivo, probabile causa di
gravi squilibri nella società. Si tratta, allora, di ripensare il concetto stesso di
flessibilità. Si tratta di ridefinire la flessibilità in un ottica che non veda il lavoratore
come puro oggetto passivo, in balia delle fluttuazioni del mercato e delle
esigenze dell’impresa, ma di valorizzare le sue capacità produttive, senza svilire
le sue urgenze di vita. Si tratta di contrapporre alla flessibilità come condizione
soltanto subita, un’impostazione che faccia della flessibilità un’occasione, una
possibilità per i lavoratori: una “flessibilità agita”, per poter scegliere.
Flessibilità subita
e flessibilità agita
31 Eurispes, Il mercato del lavoro in Italia dopo la “Riforma Biagi” in Rapporto Italia, Roma, 2005.
Tabella 3
Flessibilità
Subita Agita
Incertezza del posto di lavoro e
coazione ad accettare quanto offerto
Possibilità di scegliere il proprio ruolo lavorativo sul mercato
Difficoltà a progettare il proprio futuro Opportunità di innovare le proprie competenze
Precarietà come condizione permanente di esistenza Flessibilità come opportunità e scelta
La corsa al ribasso
dei salari
Si tratta di capire che, con la trasformazione delle condizioni generali del lavoro
e della vita, vanno affermandosi nuovi problemi, bisogni sociali primari di
un precariato sempre più diffuso.
Si tratta di capire, soprattutto, che un lavoratore soggetto alla discontinuità e
all’incertezza del reddito, è innanzi tutto un lavoratore fortemente ricattabile,
perché costretto ad accettare qualunque occasione, anche la più degradante e
mal retribuita, pur di avere un minimo di cui vivere. Cresce e prolifera senza
limiti il lavoro nero e irregolare, tutto quel lavoro che è al limite e oltre la legalità.
Cresce la speculazione sul lavoro, per cui la flessibilità diventa un’occasione
per disporre di manodopera a basso costo e priva di coperture sindacali.
La precarietà vuol dire anche questo: sottomissione a rapporti sfavorevoli perché
non si ha la possibilità di rifiutare nulla, poiché nulla è garantito. Gli effetti
di ciò sul costo del lavoro, sono facilmente immaginabili: si innesca un circolo
vizioso che, data la disponibilità di manodopera sotto ricatto, conduce l’impresa a proporre
salari sempre più bassi, come tra l’altro dimostrano le statistiche italiane sull’andamento
del salario medio, oggi caduto ben al di sotto della media europea.
Secondo i dati dell’Istat:
“ai contratti atipici corrispondono anche salari differenziati. Rispetto al
contratto a tempo indeterminato, preso come base di riferimento, la
riduzione salariale oraria, per un contratto a termine, è infatti pari al 10,5
per cento in meno, quella di un contratto di formazione-lavoro si ridu
ce di circa il 12,9 per cento e quella per gli apprendisti si contrae fino al
22,1 per cento” (Istat, Rapporto annuale 2005).
Seguendo in dettaglio la ricerca Eurispes, veniamo poi a conoscenza del fatto
che l’irregolarità nel pagamento del salario riguarda in particolare le donne che
vi sono coinvolte nel 12,2 per cento dei casi (contro il 9,8 per cento degli uomini)
e i giovani tra i 18 e i 25 anni che si trovano in questa situazione nel 15,5 per
cento dei casi, rispetto al 3,4 per cento di coloro che sono nella fascia di età tra
i 33 e i 39 anni. Ancora più significativa, in riferimento al salario percepito, è
l’ammontare mensile medio. Il 76,5 per cento dei lavoratori flessibili possono
contare su una retribuzione mensile che non va oltre i mille euro netti. Anche
qui i differenziali rispetto al genere introducono ulteriori elementi di inquietudine,
se giudicati in riferimento alle pari opportunità da garantire a tutti i cittadini.
Senza lavoro e, quindi senza reddito, non si può che essere esclusi. Ciò sottende,
evidentemente, che l’unico modo di ottenere reddito, è sottostare alla scarsità
di opportunità realmente offerte, là dove solo i più forti ce la fanno. Una
società così strutturata non può che avere quale propria conseguenza logica
l’esclusione sociale, soprattutto dei meno abili e scaltri nel maneggiare le regole
del mercato. I rapporti degli enti di intervento sociale agli esclusi (per esempio,
la Caritas) confermano la crescita del fenomeno e il suo allargarsi su strati
sociali tradizionalmente considerati abbastanza garantiti.
Ripensare il sistema di garanzie sui bisogni emergenti
Le ricerche fino ad ora svolte sul settore dei lavoratori flessibili confermano il
loro senso di generale insoddisfazione. Se la ricerca Eurispes ha limiti oggettivi
nella insufficienza del campione di riferimento è però particolarmente accorta
nel rilevare le variabili più soggettive della precarietà, i comportamenti e le
valutazioni che i soggetti intervistati maturano perdurando in una condizione
di precarietà lavorativa. In questo modo essa connette facilmente il dato oggettivo-
quantitativo a quello soggettivo-qualitativo e riesce, altresì, a fornire uno
spaccato della precarietà come condizione del lavoro, che si riverbera immediatamente
sulle condizioni di vita. Da questa rilevazione, in termini più semplici,
possiamo comprendere le ripercussioni che la precarietà lavorativa ha sull’esistenza
individuale e collettiva degli intervistati e rintracciare le linee di necessità
insoddisfatte che caratterizzano la condizione di precarietà.
Emergono specifici bisogni che accomunano tutti gli individui sottoposti a questa
condizione. Forte disagio è registrato dall’Eurispes rispetto alla soddisfazione
del compenso economico della prestazione: i due terzi degli intervistati (il
65,9 per cento) affermano di essere poco (30,5 per cento) o per niente soddisfatti
(35,4 per cento). Soltanto il 4,7 per cento afferma di essere molto soddisfatto
del proprio salario. Il 34,3 per cento degli intervistati lamenta, inoltre,
forti irregolarità nei pagamenti. L’insoddisfazione si registra forte anche rispetto
ad adeguate tutele sociali, quali malattia (poco tutelata per il 24,7 per cento e
per niente per il 56,9 per cento), maternità (poco tutelata per il 24,2 per cento
e per niente per il 63,5 per cento), sicurezza sul lavoro (il 68,7 per cento), e sindacali,
soprattutto in riferimento al diritto di sciopero (oltre il 90 per cento del
campione si dichiara insoddisfatto, nello specifico lo ritiene poco tutelato il 20
per cento o per niente il 70,2 per cento).
Probabilmente, a fronte dello stato di stagnazione economica nella quale si trovano,
oltre all’Italia molti paesi occidentali, è necessario ripensare integralmente l’intervento
sul sistema del lavoro, ripensare il ruolo dello Stato e di un sistema di garanzie socia
Cosa è necessario
fare contro la
precarietà?
Partire dalla
condizione di
precarietà per
ripensare il
sistema di garanzie
li che fino ad ora sono stati visti esclusivamente come intralcio allo sviluppo economico e come
costo passivo; a partire da qui è necessario pensare una riforma generale della fiscalità. È
intenzione di questa ricerca dimostrare che l’investimento sociale e i costi di un
adeguamento del sistema di protezione sono invece necessari e utili. Intenti che,
se realizzati, prospetterebbero una riorganizzazione democratica della vita
sociale, ristabilendo il criterio delle pari opportunità per ogni cittadino, ma che
si rivelerebbero economicamente vantaggiosi quali fattori di risparmio indiretto,
dati gli alti costi sociali cui la collettività deve far fronte con il generale peggioramento
delle condizioni di vita.
Nonostante la precarietà si delinea come condizione diffusa di lavoro e di esistenza,
le forme in cui essa si presenta sono molte e diverse tra loro. Le biografie
dei lavoratori precari sono spesso il risultato di eventi di lavoro e di vita che,
in apparenza, non hanno alcuna relazione causale e necessaria tra loro se non
lo stesso carattere singolare dell’esperienza, ovvero questo sentirsi singolarità.
L’articolazione flessibile del lavoro sociale sembra aver fatto perdere quell’unità
minima, comune, necessaria, affinché le esperienze individuali possano essere
collettivamente interpretate. Ciò che è comune tra i soggetti precari sembra
determinarsi solo per negazione, come ciò che manca a tutti: mancanza di un
senso comune dell’esperienza di vita, ma soprattutto mancanza di diritti fondamentali.
Ciò che manca è misura di un qualcosa di cui si ha necessità e che non
si possiede. Vediamo allora che, non fosse altro che nelle necessità di base, i
precari hanno qualcosa che li accomuna, qualcosa che permette loro di riconoscersi
e individuarsi, di comprendersi.
I bisogni che scopriamo tra i lavoratori precari come loro debolezza sociale
dimostrano la debolezza della società in quanto tale, dimostrano che, a fronte
di un generale sviluppo della produzione flessibile e delle ricchezza che essa ha
prodotto, nella società matura una condizione soggettiva di generale insicurezza
verso il proprio presente e il proprio futuro. Dimostrano anche che la creazione
di insicurezza determina il movente della produttività del lavoratore precarizzato,
seguendo un ciclo che distrugge certezze per creare ricchezze, e che,
così facendo, impoverisce la società nel suo complesso. Il risultato di questo
ciclo è una società più povera, più statica e perciò meno produttiva, una società
con forti dispersioni di risorse.
Per quest’ordine di considerazioni, il lavoratore precario è il punto critico della
società postfordista, il punto di vista dal quale si scorge la debolezza struttura-
le dello sviluppo. I nuovi problemi vanno compresi nella urgenza che ognunodi essi esprime. È necessario trovare, per ciascuno di essi, un’adeguata soluzione,
una forma di sostegno: l’insieme di quelle misure così individuate può definire
un nuovo sistema di garanzie, un nuovo sistema di diritti, adeguato a far
fronte ai rischi di dissoluzione della vita sociale e democratica. Ognuna di queste
esigenze inappagate è il tassello di un più generale quadro di garanzie da introdurre nelle
dinamiche della società postfordista, compensandone gli squilibri e rafforzando il potere sociale
dei soggetti che oggi questi diritti subiscono passivamente.
Va detto che queste misure andrebbero estese ad un più ampio spettro di beneficiari,
ma concentriamoci nel definire in termini di minimum l’architettura di
questo sistema di garanzie postfordista in riferimento ai bisogni emergenti dei
lavoratori precari quali sono emersi dai cicli di inchiesta fino ad ora realizzati.
Tabella 4
Bisogni sociali emergenti tra i lavoratori esposti alla precarietà
Bisogni sociali
Beni da garantire per la soddisfazione
del bisogno di sicurezza
Reddito
Reddito garantito, erogazione di una quota monetaria
per la riproduzione delle vite singolari
Formazione
Disponibilità di strumenti e di luoghi
per la formazione, accesso all'istruzione
Informazione Accesso all'informazione e rimozione dei vincoli che lo limitano
Mobilità
Fruizione di mezzi di trasporto, garanzie dei servizi per
il movimento sul territorio
Alloggio
Garanzia di abitazione in forma diretta con allocazione
in edilizia pubblica o indiretto con contributo all'affitto
Malattia, ferie e maternità
Garanzia dei diritti di maternità, di riposo e di malattia,
accesso garantito agli asili nido
Socialità e cultura Accesso iniziative di ordine culturale
- Il primo centrale bisogno di chi si trova in una condizione di precarietà, quindi
di discontinuità del rapporto di lavoro, è quello di poter contare su un’erogazione
continuata di reddito nei periodi di inattività. La garanzia di un reddito
come diritto, oltre a porre un freno all’insicurezza che si determina nella
vita dei precari, può anche consentire una più oculata scelta individuale delle
offerte lavorative e, eventualmente, il rifiuto dei lavori degradanti nella prestazione
e nella retribuzione. Un’erogazione monetaria diretta può compensare
questa difficoltà oggettiva nella quale incorrono i precari nei periodi di non
lavoro e le difficoltà dei soggetti in stato di povertà che permangono sotto una
soglia minima accettabile. Questa misura deve arrivare a stabilire almeno una
soglia di reddito di base garantito per tutti.
- Un secondo importante livello di garanzie socialmente necessario è l’accesso
ad una formazione permanente per la crescita individuale della conoscenza edelle competenze, anche professionali. È necessario che siano messi a disposizione
strumenti e luoghi per la formazione. Tra questi strumenti c’è anche la
fruizione di iniziative culturali, il cui accesso è necessario facilitare.
-Il libero accesso all’informazione in merito alle offerte di lavoro e alle opportunità
di autosviluppo è, a sua volta da incentivare, affinché il lavoratore precario,
anche quello meno favorito da solide reti sociali in proprio possesso, possa
comunque essere posto in grado di usufruire con consapevolezza delle offerte
e delle opportunità presenti.
- Un importantissimo livello dei bisogni è rappresentato dalla possibilità di
muoversi sul territorio, senza essere costretto a decurtare parte consistente del
proprio reddito in spese di trasporto. Un problema molto sentito dai pendolari,
ma che coinvolge tutti i lavoratori, nel momento in cui il rapporto tra produzione
e territorio si fa sempre più stretto. La mancata risoluzione di questo
diritto alla mobilità penalizza, evidentemente, gli individui, in base al territorio
di appartenenza, creando aree diseguali di opportunità sociale. Si tratta di agevolare
la fruizione dei mezzi di trasporto, mettendo a disposizione tutti quei
servizi che favoriscono il movimento sul territorio e la libera circolazione degli
individui.
- Problema mai risolto, anzi fortemente aggravato dalle tendenze speculative sul
mercato della casa è quello dell’alloggio, ovvero la possibilità, per tutti, di
disporre di uno spazio per la realizzazione della propria vita, in piena indipendenza,
tenendo conto che le spese per gli affitti, per i mutui o per l’acquisto
della prima abitazione, decurtano in maniera impressionante il reddito individuale
dei lavoratori in generale, imponendo, spesso, un’ipoteca anche sul loro
futuro.
- Il lavoratore precario è spesso privato delle tradizionali forme di garanzia attribuite
al lavoro “fordista” come le ferie, la malattia, la maternità. E’ da rilevare
che soprattutto le lavoratrici trovano di fronte a loro gravi impedimenti a continuare
la propria attività e carriera professionale, per esempio a causa del difficile
accesso agli asili nido, come segnalato dalle più recenti indagini (Istat,
Rapporto annuale, 2005).
- Importante è anche favorire l’accesso alle iniziative culturali (dai musei, concerti,
mostre, eventi culturali in genere), spesso limitate alla platea delle sole
élite più facoltose.
Perché un reddito garantito
Il processo produttivo mostra la centralità di una nuova soggettività, quella dei
lavoratori precarizzati, legata alla nascita di nuove relazioni produttive orientate
alla flessibilità. È necessario ripensare un sistema di garanzie che sia in grado
di reinterpretare, di aggiornare e, possibilmente, di rilanciare, l’idea di base sottesa
a tutti i sistemi di welfare, vale a dire la garanzia dei lavoratori in tutti i
momenti di bisogno quale fattore di crescita collettiva e di partecipazione
democratica. Contro i nuovi rischi di esclusione legati alla precarietà dei rapporti
di lavoro è necessario introdurre un sistema di garanzie capace di dare rispo
ste concrete. L’introduzione di un reddito garantito è la misura adeguata e
necessaria a dare risposte alle sfide attuali che investono il mercato del lavoro.
Tabella 5
Possibili ricadute sociali di una politica di sostegno al reddito
Prospettiva
politica
Conseguenze
esistenziali
Obiettivi
sociali
Effetti
economici
Possibilità
progettuali
Ristabilisce i livelli
democratici di
partecipazione sociale
Rende possibile
la scelta soggettiva
Protezione e
contenimento dei
rischi di esclusione
sociale
Frena il ribasso
della retribuzione e
ricalibra la
redistribuzione delle
risorse nella società
Possibilità di reinvestire
le proprie competenze
con una più libera
gestione del tempo
Così come la condizione di precarietà genera incertezza, allo stesso modo, ma
in direzione opposta, la misura di garanzia del reddito deve generare stabilità
nei percorsi singoli esistenziali. Alla creazione di “lavoratori poveri” dovuta allo
stato di precarietà, ai bassi salari o al lavoro nero il reddito garantito oppone
un’integrazione dei guadagni tale da scongiurare completamente il rischio di
povertà.
È di fondamentale importanza che l’ipotesi di garanzia del reddito preveda
nella sua articolazione una erogazione monetaria (reddito diretto) e una erogazione
di beni in natura, servizi e beni di necessità primaria come la casa, la formazione,
la salute, la mobilità (reddito indiretto).
Questa erogazione di beni in natura è essenziale per contrastare i rischi connessi
alla cosiddetta “monetizzazione” dello stato sociale, termine con il quale si
designa la proposta di orientamento neoliberista secondo la quale si dovrebbe
attribuire a ciascuno un reddito (tramite un’imposta negativa) privatizzando per
il resto tutte le prestazioni sociali, la scuola, gli ospedali, la previdenza, i quali
diventano liberamente negoziabili sul mercato. Inserire l’erogazione in natura di
beni e servizi primari nell’ambito di una misura a garanzia del reddito significa,
al contrario, ribadire che i servizi di base devono essere erogati presso strutture
pubbliche e con modalità uguali per tutti, non delegabili al solo mercato.
D’altra parte i disagi della precarietà si manifestano principalmente nella difficoltà
a ottenere un reddito fisso e continuativo. Un reddito monetario diretto
può scongiurare l’instabilità del presente e l’incertezza per il futuro. Esso può
arginare in modo soddisfacente il rischio di povertà e d’esclusione.
Reddito diretto e
reddito indiretto
Verso un reddito di base
I fautori del reddito di base hanno talvolta collegato all’adozione di un istituto
cambiamenti sociali epocali, quali il ripopolamento delle campagne o il riequilibrio
dei rapporti tra i sessi. I suoi detrattori hanno temuto invece l’avvento di
una società di “fannulloni” restii a lavorare, destinata a regredire nella barbarie.
Qui, per ciò che ci riguarda, ci limitiamo a valutare alcuni effetti che il reddito
garantito potrebbe avere sulle condizioni materiali di vita di un individuo esposto
ai rischi della precarietà del lavoro.
- Il reddito garantito porrebbe un freno alla corsa verso il basso del costo del
lavoro. Il lavoratore verrebbe tutelato dal rischio di disoccupazione e, se la
misura non fosse negata da un eccesso di condizionatezza, sarebbe in grado di
rifiutare i lavori servili e poco remunerati. In pratica, la disponibilità ad accettare
impieghi poco retribuiti è inversamente proporzionale alla garanzia del reddito
che la società accorda nei momenti di inattività.
- Il reddito garantito determinerebbe per i precari una concreta liberazione del
tempo, favorendo un reinvestimento personale e un processo virtuoso di riqualificazione.
Ciascuno potrebbe, in virtù di un allentamento dell’obbligo al lavoro,
perseguire interessi e progetti formativi. La liberazione di tempo e di risorse
comporta un ritorno positivo alla società nel suo complesso.
- Il reddito garantito è una misura di protezione dal rischio di esclusione sociale,
rischio sempre più diffuso in strati crescenti di popolazione. È erogabile a
lavoratori tradizionali in condizione di disoccupazione, per i precari a basso
reddito e per i disoccupati di lunga durata: soggetti a rischio che si trovano sul
crinale dell’esclusione sociale e i soggetti già colpiti da forme maggiori di povertà
e di privazione.
Il sistema del welfare in Italia
L’attuale legislazione
sulla protezione sociale
Cerchiamo ora di cogliere le analogie e le differenze tra il sistema welfaristico
italiano e i modelli vigenti nel contesto europeo (Allegato: Sistemi di protezione del
reddito in Europa). Vedremo in dettaglio i tipi di erogazione, istituto per istituto,
distinguendo tra quelli di tipo previdenziale e quelli di tipo assistenziale. Il
primo tipo di provvedimenti è finanziato prevalentemente con i contributi dei
lavoratori e comprende tutte le misure previdenziali o assicurative, predisposte
dallo Stato, per salvaguardare il reddito dei lavoratori dai rischi più frequenti,
quali la disoccupazione, la malattia o la povertà. Il secondo, detto assistenziale,
comprende tutte le erogazioni finanziate, in linea di principio, dalla fiscalità
generale e predisposte per sorreggere il cittadino che versa in uno stato di bisogno.
Nel confronto con le impostazioni prevalenti nei sistemi europei diventano più
evidenti gli elementi di criticità del sistema di welfare che caratterizza il nostro
Paese. Tipico, a questo proposito, è lo sbilanciamento della spesa verso il finanziamento
di quegli strumenti di protezione dei lavoratori, a danno degli istituti
assistenziali che, invece, puntano a garantire il cittadino in quanto tale. Va sottolineata,
inoltre, l’accentuata frammentazione degli strumenti esistenti, introdotti
uno dopo l’altro, con previsioni legislative ad hoc, estese categoria per categoria,
senza un disegno complessivo della materia. Muovendo dalla distinzione
tra spesa previdenziale e spesa assistenziale, la struttura italiana di spesa sociale
può essere sintetizzata con lo schema seguente.
1. Misure “di natura previdenziale”, destinate ai lavoratori
L’insieme delle erogazioni di previdenza sociale ha un fondamento direttamente
costituzionale, poiché l’art. 38 della Carta fondamentale recita:
“I lavoratori hanno diritto che siano previsti ed assicurati mezzi adeguati
alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia,
disoccupazione involontaria”.
La Costituzione, come orientamento generale, postula il diritto a godere di
forme di assicurazione contro il rischio di disoccupazione. Il presupposto per
l’attivazione di queste misure è appunto lo stato di disoccupazione, ovvero la
situazione di un lavoratore che ha perso la propria attività lavorativa pregressa.
Al contrario, il soggetto che risulta occupato al nero, o in cerca di prima occupazione,
o prestatore d’opera in forma autonoma, da questo punto di vista non
ha diritto ad alcun trattamento formalmente riconosciuto.
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[erogatore Inps – contribuente datore di lavoro]
Pressoché tutte le categorie di lavoratori subordinati possono beneficiare di
questo istituto: i lavoratori a part-time verticale, quelli che hanno avuto un’occupazione
per meno di 6 mesi e, in seguito ad una recente modifica, i soci di
cooperativa. Tra gli esclusi, vanno segnalati i dipendenti pubblici con impiego
stabile, gli apprendisti e i parasubordinati. Presupposto del trattamento è il
licenziamento, pertanto non vi ha diritto il lavoratore dimissionario (se non per
giusta causa). Sono previste misure diverse, a seconda dei casi, e le principali
sono:
Indennità ordinaria. Presuppone l’iscrizione all’ufficio per l’impiego, 1
anno di contributi versati nell’ultimo biennio, 2 anni complessivi di
anzianità maturata. Vengono corrisposte, al massimo, 180 giornate (360
per edili ed affini) al 40 per cento della retribuzione che si percepiva
quando si era occupati. La consistenza economica della misura è stata
aumentata solo di recente, giacché fino al 1988 ammontava a sole 800
lire al giorno, mentre dal 1988 fino al 1995 era pari al 7,5 per cento della
retribuzione. Fino al 2001 è stata pari al 30 per cento. L’indennità cessa,
se si trova un nuovo lavoro, se si rifiuta un’occupazione adeguata o se
viene rifiutata o trascurata la frequenza ai corsi di formazione.
Indennità ai lavoratori “a tempo determinato”. È prevista nel caso
in cui non si sono raggiunte le 52 settimane di contributi versati negli
ultimi due anni, purché si siano raggiunte almeno 78 giornate di lavoro
nell’ultimo anno e almeno 2 anni di anzianità. La misura è pari al 30 per
cento della retribuzione percepita moltiplicata il numero di giornate
lavorate (viene liquidata in un unico assegno).
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[erogatore Inps – contribuente datore di lavoro]
Le integrazioni salariali non sono rivolte alla generalità dei lavoratori, ma solo
a quelli che sono alle dipendenze di una particolare azienda dichiarata in crisi.
Questo è uno strumento che consente alle imprese di risparmiare sul fronte
delle spese salariali, evitando allo stesso tempo il licenziamento. Si distingue tra
una Cassa integrazione guadagni ordinaria (Cigo) ed una straordinaria (Cigs):
Cigo. Rientrano in questo istituto solo le aziende industriali, comprese
le cooperative. Restano escluse, oltre a tutte le imprese che operano nel
settore terziario, le imprese artigiane, le cooperative che lavorano nei
porti, le imprese di navigazione (così detti “armatori”). Prevede la reintegrazione
dell’80 per cento del salario, relativo alle ore non lavorate, per
un periodo pari a 3 mesi, ed è prorogabile fino a un massimo di 12 mesi.
Cigs. Non è prevista in situazioni di crisi temporanea, ma vi si ricorre
in casi di difficoltà strutturale dell’impresa, cioè quando vi è una ristrutturazione
aziendale, una “crisi aziendale di particolare rilevanze sociale”
oppure quando sia stata avviata una procedura di fallimento. L’impresa
deve presentare un programma mirato al rilancio dell’attività produttiva,
che deve essere sottoposto alla valutazione dei sindacati e quindi approvato
con decreto del Ministero del lavoro. Viene quindi erogata per un massimo
di 2 anni, prorogabile per altri 24 mesi (una misura pari all’80 per
cento della retribuzione che si sarebbe percepita nelle ore non lavorate).
Il lavoratore deve aver maturato un’anzianità di servizio di almeno 90
giorni. Questo tipo di integrazione salariale può essere richiesto dalle
sole imprese industriali con almeno 15 dipendenti.
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[erogato dall’Inps]
È una misura regolata principalmente dalla legge 223/91. L’ambito di applicazione
(soggettivo) è simile a quello della Cigs, ma decorre dal momento in cui
il lavoro cessa. Occorre avere un’anzianità in azienda di 12 mesi di cui almeno
6 effettivamente lavorati e un contratto a tempo indeterminato. L’ammontare
del trattamento è pari all’80 per cento del salario durante il primo anno, pari al
64 per cento negli anni successivi. La durata varia da uno a quattro anni, secondo
il combinarsi di due parametri: l’età del lavoratore e l’area geografica di residenza.
La così detta mobilità “lunga” è una misura straordinaria che si prolunga
fino al pensionamento.
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[erogato dall’Inps]
Se la prestazione diviene impossibile a causa di ragioni obiettive (tipo l’assenza
di corrente elettrica, calamità naturali eccetera), ai sensi della legge 164/75,
l’Inps interviene – se la produzione è sospesa o notevolmente diminuita - con
delle integrazioni salariali.
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[erogato dall’Inps]
La legge prevede per le lavoratrici gestanti un periodo di astensione obbligatoria
dal lavoro (di 5 o 6 mesi secondo la tipologia di mansioni), pagato all’80 per
cento della retribuzione. Dopo il periodo di astensione obbligatoria, la madre
o, in alternativa, il padre, ha diritto ad altri 6 mesi di astensione facoltativa, retribuita
al 30 per cento del salario. La legge attuale preclude l’accesso a questo
beneficio alle precarie.
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[erogato dal datore di lavoro per conto dell’Inps – misura previdenziale]
Questa forma di integrazione del reddito spetta a tutti i lavoratori subordinati,
anche se soci di cooperative, o pubblici dipendenti o in mobilità o pensionati,
o iscritti nella gestione separata Inps, per tutto il periodo di lavoro all’interno
dell’azienda. L’ammontare della misura è differenziato in rapporto al numero
dei componenti la famiglia e al reddito complessivo del nucleo familiare stesso.
Si tratta di una misura piuttosto generosa, che occupa un capitolo di spesa
importante nell’ambito della spesa sociale italiana.
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[erogato dall’Inps]
La pensione, essendo fondata sui risparmi mensilmente versati dal lavoratore
nelle casse dell’Inps, va considerata alla stregua della retribuzione. La così
detta “Riforma Dini”, con il passaggio al metodo contributivo, ha ulteriormente
accentuato questo aspetto. Se si considera, però, l’assetto generale
della previdenza sociale, si nota la presenza di numerosissimi istituti che prevedono
erogazioni monetarie, cui non corrisponde un’attività lavorativa effettivamente
prestata. In generale, si distingue tra rischi professionali (infortunio
sul lavoro, malattia professionale, disoccupazione involontaria,
riduzione/sospensione dell’attività lavorativa) e rischi non professionali (carico
familiare, malattia, gravidanza e puerperio, inabilità/invalidità, vecchiaia -65
anni di età-, anzianità -35 anni di lavoro-, morte). La previdenza sociale accorda
tutele per tutti questi tipi di rischi, a patto di possedere la qualifica di lavoratore.
Ci limiteremo ad alcune osservazioni sul complesso settore della spesa pubblica
italiana:
l’assegno di invalidità e la pensione di inabilità non coincidono con la rendita
Inail, dovuta in caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale. Gli
interventi in questione, infatti, dipendono da malattia contratta in dipendenza
dalla prestazione lavorativa. Essi si distinguono dalla pensione di invalidità
civile per il carattere assistenziale di quest’ultima, destinata agli invalidi che
non hanno maturato anzianità contributiva;
la pensione ai superstiti è un’erogazione monetaria riconosciuta in favore dei
familiari del lavoratore deceduto;
tutti i trattamenti di previdenza sociale gravano sulla generalità della gestione
pensionistica, e sono pertanto fondati sull’assunto della solidarietà tra lavoratori;
i lavoratori autonomi sono in genere inquadrati in una pluralità di Casse che
si limitano, principalmente, ad erogare pensioni di vecchiaia, invalidità e
superstiti.
Di particolare rilievo, per ciò che concerne l’ammontare complessivo delle
erogazioni, è la cosiddetta integrazione al minimo, ossia la rivalutazione di una
pensione fino alla soglia minima di 412 euro mensili, purché la persona pensionata
versi in una reale situazione di bisogno.
2. Misure “a carattere assistenziale”, destinate ai cittadini
L’insieme di queste erogazioni rappresenta una ben piccola appendice nel
complesso della spesa sociale italiana. Si tratta di misure di assistenza rivolte
a particolari categorie di svantaggiati che nulla hanno in comune tra loro
(madri, orfani, invalidi, disabili, anziani) a parte il fatto di non avere la qualifica
di lavoratori. Con una serie di decreti legislativi del 1998, sotto il gover
no Prodi, si avvia un processo di complessivo riordino di queste voci di spesa
pubblica, processo ad oggi rimasto interrotto32. L’ordinamento prevede oggi
un gran numero di erogazioni di tipo assistenziale svincolate dalla prestazione
lavorativa, seppure insufficienti e di modestissima entità; si va dalla concessione
di borse di studio, all’assegnazione di case popolari, fino alla copertura
pubblica delle spese legali per l’instaurazione di processi penali, civili e
amministrativi. In questa sede, ci limiteremo ad elencare gli istituti più significativi.
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[competenza dei Comuni ma erogatore è l’Inps]
Consiste in un assegno, introdotto con la Finanziaria 1999, originariamente
stabilito nella misura massima di 100 euro mensili (poi debolmente rivalutate)
ed erogato per 13 mensilità. È uno strumento di sostegno previsto per le
famiglie con tre o più figli minorenni che versino in condizioni economiche
svantaggiate, ma una misura meno generosa rispetto agli assegni ai nuclei
familiari che spettano ai lavoratori. La prova dei mezzi viene effettuata tramite
l’Ise.
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[concessa dai Comuni con fondi Inps]
Prevede un assegno di circa 270 euro per cinque mensilità alle madri residenti
in Italia, in possesso di condizioni economiche svantaggiate (da calcolarsi
mediante l’Ise). La misura è concessa solo alle madri che non beneficiano del
trattamento previdenziale della così detta indennità di maternità, prevista in
favore delle madri che sono lavoratrici.
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[concesso dai Comuni con fondi Inps]
Si tratta di mille euro una tantum destinate a tutte le madri di secondo figlio o
di figlio ulteriore. È una prestazione universale, nel senso che è indipendente
dal reddito della famiglia di origine.
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[misura previdenziale erogata dall’Inps]
Si tratta di un assegno sociale di poco superiore ai 300 euro (innalzato, con la
Finanziaria 2003, fino a 500 euro, ma solo in casi particolari), destinato agli
32 Il D.Lgs. 133/98 istituisce, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, un fondo unico, denominato
“Fondo nazionale per le politiche sociali”, cui possono attingere, unitariamente, un gran
numero di istituti. Il D.Lgs. 109/98 introduce un nuovo indicatore economico, l’Ise, uno strumento
che si prefigge lo scopo di fornire un criterio uniforme di valutazione della situazione economica
di chi richiede prestazioni di tipo assistenziale; nella valutazione si fa riferimento in modo
esclusivo alla composizione del nucleo familiare, si computa inoltre l’eventuale presenza di un
patrimonio mobiliare e immobiliare.
anziani nullatenenti. L’assegno viene erogato in misura ridotta se il beneficiato
percepisce altri redditi. Dal 1996, con il passaggio del sistema pensionistico
dal metodo retributivo a quello contributivo, tale misura è stata sostituita
con l’assegno sociale, di poco più generoso (circa 360 euro al mese). L’assegno
sociale è il corrispettivo, in chiave assistenziale, della misura previdenziale del-
l’integrazione al minimo.
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[erogato dall’Inps]
Sono misure erogate in favore dei mutilati e degli invalidi civili, cioè a favore
di soggetti affetti da forme gravi di inabilità al lavoro, beneficiati con trattamenti
indipendenti dal lavoro e che si sommano ad altri redditi eventualmente
percepiti, purché non venga superata una determinata soglia. Gli invalidi
civili vanno tenuti distinti dagli invalidi del lavoro: questi ultimi, infatti, avendo
la qualifica di lavoratori, hanno diritto alle prestazioni pensionistiche pensioni
d’invalidità - generalmente molto più generose e previste ad una
soglia inferiore di invalidità rispetto a quella prevista per gli invalidi civili.
Prima delle recenti riforme, le pensioni di invalidità sono state, spesso ritenute
oggetto di scambio clientelare, prima, una importante misura di coesione
sociale, poi. La loro erogazione ha sopperito, di fatto, all’assenza di una misura
universalistica di garanzia al reddito, pur disattendendo, spesso, criteri di
razionalità, e con le distorsioni che è facile immaginare.
Tabella 6
Schema sintetico della natura e dello scopo delle principali misure che
compongono il sistema del welfare italiano
Misura di sostegno
del reddito
Natura Erogatore Finanziatore Rischio Beneficiari
Assicurazione
contro la
disoccupazione
Previdenziale Inps Datore di lavoro Disoccupazione
Lavoratori
disoccupati
Cigo e Cigs Previdenziale Inps Datore di lavoro Disoccupazione
Lavoratori
disoccupati
Indennità di
mobilità
Previdenziale Inps
Inps – generalità dei
lavoratori
Disoccupazione
Lavoratori
disoccupati
Congedo di
maternità
Previdenziale Inps
Inps - generalità dei
lavoratori
Maternità Madri lavoratrici
Assegno
di maternità
Assistenziale Comune
Inps – generalità dei
lavoratori
Maternità
Madri non
lavoratrici
Assegni
per il nucleo
familiare
Previdenziale
Inps (tramite il
datore di lavoro)
Inps – generalità dei
lavoratori
Povertà Lavoratori
Assegno per i nuclei
familiari numerosi
Assistenziale Comune
Inps – generalità dei
lavoratori
Povertà Famiglie
Integrazione
al Minimo
Previdenziale Inps
Inps - generalità dei
lavoratori
Povertà
Lavoratori
pensionati
Assegno sociale Assistenziale Inps
Inps - generalità dei
lavoratori
Povertà Anziani
Assegno
al secondo figlio
Assistenziale Comune
Inps - generalità dei
lavoratori
Maternità Madri
Pensione agli
invalidi civili
Assistenziale Inps
Inps – generalità dei
lavoratori
Invalidità Invalidi
Pensione
o assegno
d’invalidità
Previdenziale Inps
Inps – generalità dei
lavoratori
Invalidità Invalidi
La debolezza e la disorganicità dell’assistenza sociale in Italia appaiono con
tutta evidenza. Le voci di spesa, in materia, sono destinate a categorie particolari,
quali i disabili o gli anziani, nei cui confronti vengono previste erogazioni
basate, di volta in volta, su specifici criteri. Che si tratti della pensione di invalidità,
che si tratti del sostegno alle madri prive di mezzi o, ancora, di portatori
di handicap, l’ordinamento fa riferimento a livelli differenti di reddito per stabilire
lo stato di bisogno, individua modalità sempre diverse per la prova dei
mezzi, eroga quantità monetarie che variano da istituto a istituto.
L’assistenza sociale italiana appare complessivamente caotica, priva di un disegno
contestuale, improntata a criteri eterogenei, che tradiscono la natura di un
sistema welfaristico formatosi per “accumulazione”, ovvero con l’aggiunta
disorganizzata di singoli strumenti di sostegno e in assenza di un disegno riformatore
unico e compiuto. Esemplare è la composizione della spesa per assistenza
sociale. Le sue risorse, non certo sovrabbondanti, sono destinate, per
circa il 90 per cento, alle categorie degli anziani e dei disabili. Nel 2003, il 47 per
cento della spesa per assistenza sociale ha finanziato un’unica misura: le pensioni
di invalidità civile. Quasi nulla è invece previsto, in favore di soggetti giovani,
magari in cerca di prima occupazione o che hanno lavorato saltuariamente
(senza l’anzianità contributiva necessaria all’erogazione degli strumenti previdenziali).
La composizione della spesa per l’assistenza evidenzia, chiaramente,
l’impianto sotteso al nostro sistema di welfare: esso muove dal presupposto per
cui il soggetto giovane e abile al lavoro può trovare da sé la modalità d’inclusione
sociale tramite un impiego in forma subordinata. Ecco perché, in Italia, le
misure di sostegno al reddito hanno carattere sussidiario e residuale: esse sono
indirizzate solo a soggetti non in grado di autosostenersi, soprattutto disabili e
anziani senza altro reddito. Al contrario, in presenza di un mondo del lavoro
completamente trasformato anche dal punto di vista delle garanzie, la collettività
richiederebbe alla spesa sociale interventi più organici e risolutivi. Le trasformazioni
dei processi produttivi non possono essere trascurate nel computo
di efficacia e adeguatezza della spesa pubblica in tema di garanzia del reddito.
Alla generale incongruenza dell’assistenza sociale, si deve aggiungere l’inadeguatezza
e l’irrazionalità -fonte di sperequazioni- che caratterizza anche il settore
della previdenza, in particolare per quanto riguarda i sussidi di disoccupazione.
Gli istituti della cassa integrazione, assai importanti e relativamente generosi,
sono destinati, infatti, ai soli lavoratori industriali, mentre la cassa integrazione
straordinaria esclude gli operai e gli impiegati delle imprese al di sotto dei
quindici dipendenti. Ne resta, pertanto, escluso il mondo delle piccole imprese
manifatturiere, in cui si determina un alto livello di precarietà. Del tutto esclusi
dai sussidi di disoccupazione sono anche i lavoratori irregolari e il vasto
mondo dei lavoratori autonomi, totalmente privi di qualsivoglia strumento a
garanzia del reddito per i periodi di minor guadagno. Infine, si fa fortemente
problematica la posizione dei lavoratori precari in senso stretto, costretti a passare
da un impiego all’altro e a periodi anche lunghi d’inattività forzata. Non
riuscendo a maturare l’anzianità contributiva minima richiesta per accedere al
sussidio di disoccupazione o alla cassa integrazione, restano anch’essi privi di
strumenti di tutela pur essendo a tutti gli effetti lavoratori subordinati.
La grandissima diffusione del lavoro in forma autonoma, diretta conseguenza
della singolarizzazione del rapporto produttivo cui tende l’economia postfordista,
mette a dura prova anche altri tradizionali strumenti previdenziali, primi fra
tutti gli assegni al nucleo familiare. Questa importante erogazione esclude completamente
i lavoratori non dipendenti, che peraltro non ricevono nulla neanche
dalle Casse speciali, cui talvolta risultano iscritti, dato che queste ultime non
assicurano di regola dal rischio di povertà.
Dal confronto con i modelli prevalenti in ambito europeo emerge, a livello ita
liano, un’allocazione di risorse a protezione di alcuni rischi specifici decisamente
insufficiente, pur nel quadro di un’incidenza percentuale della spesa sociale
sul Pil non troppo dissimile dalla media Ue. L’Italia infatti spende il 4 per cento
del Pil in prestazioni a favore della famiglia e dell’infanzia, a fronte di un 8 per
cento speso in media nella Ue. Per la voce “disoccupazione” spende solo l’1,6
per cento (la media europea è del 6,2 per cento) e solo lo 0,3 per cento (contro
il 3,6 per cento della Ue) per “abitazione ed esclusione sociale”.
La difformità più macroscopica, però, è data senza dubbio dall’assenza, nel
nostro Paese, di una misura universalistica di ultima istanza. Unica in ambito
europeo, assieme alla Grecia, l’Italia non dispone di uno strumento di intervento
capace di affrontare tutte le situazioni di bisogno e di esclusione sociale, a
partire da una distinzione formalizzata dei rischi e dei beneficiari.
La sperimentazione, avviata nel 1998, del cosiddetto “reddito minimo di inserimento”
risponde proprio alla necessità di una misura a carattere universalistico
posta a garanzia del reddito. Il governo Berlusconi, dopo aver sospeso la
sperimentazione di tale misura, ha annunciato l’adozione, su nuove basi, di uno
strumento denominato “reddito di ultima istanza”, i cui contorni, per la verità
ancora pochi chiari, sono stati delineati dal Libro bianco sul welfare diffuso nel
febbraio 2003 dal Ministero del welfare. A ciò si aggiungano le numerose iniziative
regionali, prima fra tutte l’introduzione del “reddito di cittadinanza” da parte
della Regione Campania, le quali, pur in assenza di una regolamentazione nazionale,
hanno quanto meno contributo ad aprire un dibattito e a segnalare con
forza l’esistenza di un problema irrisolto.
Stilare un bilancio della sperimentazione del Reddito minimo d’inserimento,
seppur pensato solo per i soggetti più poveri e in condizioni di estremo disagio
sociale, è importante per la ricerca di una normativa soddisfacente in tema di
reddito garantito. La misura consisteva in una parte monetaria (che arrivava ad
un massimo di 274 euro mensili per un persona singola e di 660 euro per una
famiglia di quattro persone) e in una parte tesa ad ottenere l’attivazione dei
beneficiari, con progetti personalizzati di inserimento sociale (offerte occupazionali,
formative, riabilitative, eccetera). L’impianto generale sembrava disco-
starsi, ad esempio, dalla filosofia vigente nel sistema svedese o in quello britannico,
nei quali sussiste un obbligo rigoroso ad accettare ogni proposta di lavoro
giudicata idonea. Nel Rmi nostrano si richiedeva al beneficiario una disponibilità
anche di diverso tipo, per esempio a seguire corsi o progetti di formazione,
ad intraprendere attività di cura o simili.
La criticità più evidente emersa nel periodo di sperimentazione del Rmi è quella
relativa all’inadeguatezza delle misure di sostegno e di reinserimento poste in
essere dai Comuni, che spesso non sono stati in grado, per ragioni ben comprensibili,
di predisporre strumenti adeguati tesi ad ottenere un effettivo reinserimento
sociale e lavorativo dei beneficiari. Il singolo Comune, infatti, ben
difficilmente potrà avere a disposizione reti istituzionali, imprenditoriali e sociali
capaci di intervenire sulle reali cause dell’esclusione sociale. Come è stato ben
sintetizzato, “senza un mercato del lavoro funzionante, e dati i vuoti di copertura
del welfare italiano, uno schema di reddito minimo rischia seriamente di
cadere vittima di un sovraccarico funzionale” (Stefano Sacchi, Reddito minimo e
politiche di contrasto alla povertà in Italia, Urge Working paper, Torino, 2005).
L'assenza di una
safety net
L'Rmi in Italia
Si è riscontrata, insomma, una generale incapacità di gestire proprio quei programmi
di inserimento sociale, che dovevano costituire, al contrario, il lato qualificante
della misura. Sicché solo una piccola percentuale dei beneficiari è stata
effettivamente ricollocata nel mercato del lavoro, e posta in grado di provvedere
autonomamente ai propri bisogni; l’aspetto prevalente della misura è stato, a
conti fatti, quello di mero sostegno del reddito.
Certamente occorre tener conto della difficilissima, talvolta disastrosa, condizione
sociale dei Comuni nei quali è stata avviata la sperimentazione; si pensi
che in alcune aree comunali interessate all’erogazione del Rmi beneficiava della
misura addirittura il 90 per cento della popolazione. Le tendenze emerse in aree
così depresse economicamente non possono perciò essere estese automaticamente
a tutto il resto del territorio nazionale. Resta il fatto però che, vista la
debolezza dell’intero welfare italiano, una eventuale reintroduzione a regime di
una misura simile al Rmi già sperimentato finirebbe per far ricadere su questa
misura tutti i bisogni sociali insoddisfatti.
Insomma, è legittimo prevedere che ricadrebbero sull’Rmi le funzioni che
dovrebbero invece essere assolte dai deboli o inesistenti schemi di protezioni
per disoccupati, disabili, anziani, individui soli, eccetera.
Un schema di protezione simile al cosiddetto “reddito di base diretto e indiretto”
appare, vista la specifica situazione italiana, la soluzione migliore sia per evitare
i fenomeni, sopra segnalati, di “sovraccarico funzionale”, sia per iniziare ad
intervenire in modo adeguato su tutti i rischi sociali finora del tutto, o quasi del
tutto, privi di protezione.
Verso un’ipotesi di riforma
L’inadeguatezza dell’attuale sistema welfaristico, le disparità di trattamento cui
dà luogo, la totale assenza di una misura di sostegno di ultima istanza, rendono
necessario, e non più differibile, la definizione di adeguate ipotesi di riforma. A
tal proposito sono stati presentati numerosi disegni di legge, mai discussi
approfonditamente in Parlamento, che paiono perseguire un duplice obiettivo:
1) allargare le maglie dei sussidi di disoccupazione, aumentandone
debolmente la generosità ed estendendo la platea dei beneficiari;
2) introdurre definitivamente un reddito minimo d’inserimento.
L’Italia, rafforzando le misure previdenziali di sostegno al reddito e introducendo
ex novo una formula di tipo universalistico, potrebbe raggiungere gli standard
europei. Tuttavia, le modificazioni intervenute sugli assetti produttivi e sulle
strutture del mercato del lavoro richiedono, in tutta Europa, un sostanziale
ripensamento del welfare, al fine di salvaguardarne l’ispirazione e l’efficacia. La
perduta centralità del lavoro subordinato a tempo indeterminato porta con sé
diversi effetti che non mancano, ovviamente, di ripercuotersi sullo stato sociale,
sottoposto a tensioni sempre crescenti. Il ritardo italiano rispetto ai modelli
tradizionali del welfare europeo, comunque, non è colmabile semplicemente
con un’operazione d’adeguamento ai canoni prevalenti nella Ue. La legge sulla
protezione del reddito in Italia potrebbe in realtà partire da un punto più avanzato
e maggiormente adeguato rispetto gli altri paesi europei nell’ affrontare le
trasformazioni avvenute in questi anni.
Contestualmente, sarebbe necessario riconsiderare la disoccupazione non più
come un fenomeno transitorio e marginale, che riguarda una percentuale trascurabile
di lavoratori; la disoccupazione (nell’accezione che comprende
entrambe le ipotesi di lungo periodo e di breve periodo) è un dato ormai strutturale
nelle economie occidentali. Il rischio di scendere sotto la soglia di povertà
non è più un problema che riguarda solo categorie “tradizionali”, come
anziani, disabili o membri di famiglie numerose, ma tende a coinvolgere un
numero complessivamente crescente di lavoratori, soprattutto quelli maggiormente
precarizzati, con rapporti di lavoro discontinui.
L’analisi fin’ora condotta offre alcuni spunti di riflessione circa la natura e le
modalità di finanziamento della nuova misura di garanzia del reddito. Senza
entrare in eccessivi dettagli, si può ipotizzare che un eventuale “reddito di base”
potrebbe puntare alla riunificazione e al riassorbimento di alcune misure welfaristiche
già esistenti, sia di natura assistenziale, sia di natura previdenziale. Le
erogazioni oggi distribuite a titolo di sussidio di disoccupazione e a titolo di
cassa integrazione potrebbero essere ripensate e rimodulate nell’ambito del
nuovo sistema. Una volta assunto come strumento di intervento, il reddito
garantito potrebbe integrare l’assegno al nucleo familiare, che nel sistema
vigente è attribuito ai cittadini che abbiano la qualifica di lavoratori. Inoltre, la
pensione sociale o l’integrazione al minimo agli anziani bisognosi potrebbe trovare
una collocazione nell’ambito del nuovo disegno di riforma. In breve, se si
introdurrà un “reddito di base” per tutti i soggetti che non raggiungono una
determinata soglia di ricchezza, non avranno ragion d’essere tutte le misure che
allocano risorse a vario titolo a soggetti che si trovano in condizioni particolari,
siano essi disoccupati, anziani, poveri o altro. La nuova misura a carattere
universalistico riassorbirebbe senza difficoltà le precedenti misure particolaristiche.
Il reddito di base potrebbe nascere dalla parziale fusione di misure preesistenti,
ponendosi al di là della tradizionale distinzione tra misure aventi carattere
assistenziale o quelle di tipo previdenziale. Non si percepisce il reddito perché
si è contribuito al suo finanziamento per via previdenziale, né perché si appartiene
a una particolare categoria di bisognosi (poveri, anziani, disabili): il dispositivo
welfaristico verrebbe invece azionato in favore del cittadino in quanto
tale.
Tabella 7
Modelli di protezione del reddito verso l’integrazione
Ciò implicherebbe il tendenziale superamento della distinzione tra previdenza
e assistenza, anche se non pare auspicabile, né necessaria, la completa fusione
e scomparsa dei due settori. La previdenza pubblica potrebbe continuare ad
assicurare i consociati contro determinati rischi (per esempio gli infortuni sul
lavoro o la maternità), al fine di garantire ai lavoratori un livello di reddito superiore
alla soglia che il nuovo reddito garantito saprà offrire. Anche i servizi
sociali continuerebbero a svolgere un ruolo assai prezioso in favore di categorie
determinate di beneficiari, quali i poveri, i disabili, offrendo loro, in aggiunta
al reddito di base, anche degli interventi più direttamente mirati al reinserimento
sociale. È, infatti, comprovato che le situazioni più complesse di esclusione
sociale non possono essere superate fornendo ai soggetti semplicemente
un potere d’acquisto tale da permettere loro di fuoriuscire dalla stato di indigenza.
I soggetti beneficiari potrebbero, infatti, essere “accompagnati” da misure
parallele di sostegno, quali corsi di formazione, offerte di lavoro, assistenza
materiale: tutte forme d’intervento che sono il terreno d’azione privilegiato dei
servizi sociali.
Il ruolo delle Regioni nella protezione del reddito
Bisogna ora definire le competenze, ossia l’ambito di attribuzione del potere decisionale
in merito all’introduzione del reddito di base ad una, piuttosto che ad
un’altra, articolazione territoriale del potere centrale. In particolare va chiarito
se le competenze in materia spettino allo Stato o alle Regioni, compatibilmente
con le rispettive capacità di bilancio che esulano da una valutazione affrontata
in questa sede. Il problema delle competenze è acuito dal generale processo
di decentramento amministrativo iniziato nella seconda metà degli anni
Novanta in molti settori, compreso quello, di nostro interesse, dei servizi socia
li. A ciò si aggiunga che tale processo di decentramento è stato suggellato e
concluso dalla legge costituzionale 3/2001, che ha interamente riscritto il
Titolo V della Costituzione, in specie l’art. 117 che regola il riparto di competenze
tra Stato e Regioni.
Ogni ricerca tesa alla individuazione del riparto di competenze, in una qualsiasi
materia, fra Stato e Regioni, deve muovere necessariamente dall’analisi del
testo nel nuovo articolo 117. La completa riformulazione di questo articolo ha
portato ad un totale ribaltamento della precedente suddivisione della potestà
legislativa fra Stato e Regioni. Il nuovo testo opera una distinzione tra potestà
legislativa esclusiva dello Stato (nelle diciassette materie indicate dal secondo
comma dell’art. 117), potestà legislativa concorrente (nelle materie individuate
dal comma terzo, rispetto alle quali lo Stato può determinare i principi
fondamentali, mentre alle Regioni spetta la legislazione di dettaglio) e potestà
legislativa esclusiva delle Regioni (in tutte le altre materie, cosiddette “innominate”,
non espressamente previste dai commi due e tre dell’art. 117).
La novità più evidente della riforma costituzionale consiste nel fatto che allo
Stato non spetta più la potestà legislativa generale, bensì un potere regolatore
che può essere esercitato solo negli ambiti oggettivi analiticamente individuati
dall’art. 117. Alle Regioni spetta invece la competenza residuale, il che non
rende necessariamente ridotto il loro spazio di operatività e di intervento; si realizza
anzi un vero e proprio effetto devolutivo, che ne amplia enormemente la
potestà legislativa.
Ebbene, l’analisi circa il riparto di competenze in tema di garanzia del reddito
potrà essere affrontata secondo l’impostazione che ha guidato tutto il nostro
lavoro, ossia muovendo dall’analisi del sistema vigente, osservando il riparto di
competenze esistente nei settori della previdenza e dei servizi sociali, e di qui
derivare una possibile risposta circa l’ambito di attribuzione di competenza in
tema di “reddito di base”.
Quanto alla previdenza sociale, non vi è dubbio che essa sia attribuita per
intero alla potestà sovrana dello Stato; le varie forme di assicurazione contro la
disoccupazione, così come l’erogazione degli assegni familiari, o anche le integrazioni
al minimo delle pensioni, eccetera, sono in tutto e per tutto regolate
dalla legge statale; al livello statale avviene anche il reperimento delle risorse
(attribuite di regola all’Inps) e la successiva distribuzione ai consociati aventi
diritto. Tale situazione di fatto è del resto pienamente in linea con il dettato
costituzionale (anche tenuto conto della riforma del 2001), e in particolare con
il disposto dell’art. 38, a mente del quale:
“i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati
alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e
vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
L’art. 38, quanto alle competenze soggiunge:
“ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti
o integrati dallo Stato”.
Inoltre il nuovo art. 117 attribuisce alla competenza statale la determinazione
dei principi generali in tema “di tutela e sicurezza del lavoro”, dunque anche in
tema di garanzia contro il rischio di disoccupazione e di assenza di reddito. La
lettera “o” del secondo comma del nuovo art. 117 Cost. inserisce perentoriamente
tra le materie di competenza esclusiva statale quella denominata “previdenza
sociale”.
Quanto al settore dell’assistenza non sembra possibile pervenire a conclusioni
così semplici e sicure. Occorre precisare, in primo luogo, che il nuovo testo
dell’art. 117 Cost. ha portato la scienza giuridica a ritenere, unanimemente, che
l’assistenza sociale, in quanto materia innominata, sia stata lasciata tra le materie
attribuite alla esclusiva potestà legislativa regionale. Tuttavia, anche se è
indubbio che tale materia rientra oggi nel dettato di cui all’art. 117 comma 4, è
altrettanto vero che la lettura del problema risulterebbe falsata se non la si connettesse,
anche in questo caso, all’ enunciato generale di cui all’art. 38 Cost., con
il quale, oltre che riconoscersi il diritto all’assistenza sociale, si prevede che la
stessa venga erogata mediante “organi e istituti predisposti o integrati dallo
Stato”. Pertanto l’omissione della materia “assistenza sociale” da quelle nominate
nell’art. 117 non comporta la sua automatica collocazione nello spazio di
competenza esclusiva regionale.
Si deve aggiungere poi che la legge ordinaria statale accorda ampie libertà di
intervento agli Enti locali, e in primo luogo ai Comuni, anche sotto il profilo
organizzativo; parrebbe così che, nonostante la valorizzazione del ruolo delle
Regioni in tema di assistenza, ovvero l’attribuzione di competenza residuale,
rimanga tuttavia piuttosto ristretto il potere di intervento delle stesse, strette
come sono tra la doppia morsa dei vincoli statali, da un lato, e dei vincoli locali,
dall’altro.
Per delineare l’esatto contenuto della competenza regionale nella materia del-
l’assistenza sociale occorrerà comunque ancora del tempo, finché non si sarà
giunti ad una esatta ricostruzione dei limiti costituzionalmente posti all’attività
statale; per il momento si è assai lontani dal raggiungimento di una soluzione
certa, chiara e condivisa: il nostro ordinamento impiegherà ancora degli anni
prima di metabolizzare del tutto la recente riforma del Titolo V.
Concludendo, dall’analisi del testo costituzionale non si ricava una risposta univoca
alla domanda circa la riferibilità delle competenze decisionali in tema di
reddito garantito. Muovendo per analogia dal computo delle competenze in
tema di previdenza e di assistenza sociale, abbiamo però osservato come, complessivamente,
appaia predominante lo spazio di intervento attribuito allo Stato.
Una diversa, e forse maggiormente opportuna, prospettiva di indagine può
però essere aperta dall’interpretazione della norma di cui all’art. 117 comma 2
lettera “m”, quella che attribuisce alla competenza esclusiva statale il compito
“di determinare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
È difficile sottovalutare l’importanza di questa norma, forse la più interessante
di tutta la recente riforma del Titolo V. Con questa norma, per la prima volta,
fa ingresso nel nostro ordinamento l’espressione “diritti sociali”. Si noti, inoltre,
che questi diritti sociali vengono ricollegati ai diritti civili per assumere, una
volta enunciati con legge ordinaria, la natura di veri e propri diritti soggettivi,
riconosciuti a tutti ed esigibili, ossia azionabili per via giurisdizionale qualora
venissero violati o non sufficientemente garantiti dagli enti pubblici chiamati a
soddisfarli.
Nel solco di questa norma costituzionale può trovare inoltre riposta l’annosa
questione, più volte portata all’attenzione della Corte costituzionale, circa la
priorità da accordare alle esigenze di bilancio e alla buona tenuta dei conti pubblici,
ovvero alla tutela dei cittadini nelle situazioni di bisogno, indipendentemente
dalla spesa pubblica che tale opzione politica può comportare. Ebbene,
se in passato alcuni diritti costituzionalmente riconosciuti sono stati compressi
proprio in virtù dell’interesse, anch’esso di rango costituzionale, a un bilancio
statale sano, oggi la situazione pare possa dirsi diversa. Il legislatore, proprio in
virtù dell’art. 117 comma 2 lettera “m”, è chiamato ad individuare i diritti sociali
essenziali, che per nessuna ragione possono essere violati.
La nozione di “livelli essenziali”, inoltre, non va intesa in modo restrittivo, alla
stregua di “livelli minimi”, bensì come l’insieme degli interventi e delle misure
del tutto appropriati e proporzionati al bisogno sociale concretamente ravvisabile;
il livello essenziale è il livello necessario a sconfiggere il bisogno, a garantire
cioè uno sviluppo completo della persona umana.
L’attuazione della norma costituzionale sui livelli essenziali implica l’individuazione,
da parte dello Stato, di tutti i bisogni sociali che devono essere soddisfatti,
in modo universalistico, sul suolo nazionale; all’individuazione dei bisogni
andrà affiancata l’enunciazione di altrettanti diritti, che potranno, proprio in
quanto diritti, essere azionati e individualmente rivendicati dal cittadino.
Ecco perciò, in tutta evidenza, che attorno alla norma in discussione pare
potersi atteggiare una complessiva rimodulazione dell’edificio del welfare. Il
diritto al reddito garantito potrà trovare un fondamento costituzionale proprio
nel solco di questa norma - che introduce per la prima volta la nozione di diritti
sociali - specificando altresì che essi devono essere programmati complessivamente
sul piano nazionale e riconosciuti come un corpo unitario, indivisibile
ed essenziale, cioè proporzionale e adeguato a liberare il cittadino dal bisogno.
Quale il ruolo della Regione in questo quadro? Un ruolo sicuramente integrativo
dell’intervento statale in tema di reddito garantito, provvedendo a soddisfare
le esigenze poste al di fuori della sfera dell’essenzialità. In definitiva, la
Regione potrà garantire diritti sociali aggiuntivi, ritenuti coerenti con i propri
interessi territoriali ed indirizzi politici; potrà inoltre ampliare, sulla base di specificità
economiche, la platea dei soggetti beneficiari della prestazione posta a
tutela del reddito e dei diritti sociali.
Si può conclusivamente ipotizzare un cammino che, in virtù della norma di cui
all’art. 117 comma 2 lettera “m”, porti all’introduzione, con legge dello Stato,
di una misura posta a garanzia del reddito, che sia adeguata e sufficiente a soddisfare
i diritti ritenuti “essenziali”. Su questa base potrà poggiare l’ulteriore
intervento regionale, teso a salvaguardare, con risorse proprie, livelli ulteriori di
diritti sociali. In attesa però che lo Stato realizzi una legge in merito al reddito
garantito, questo non ha impedito ad alcune regioni, come quella Campana, di
intervenire anticipatamente.
Il reddito per chi, quando,
quanto, come e da chi
Cinque domande per ripensare
la protezione del reddito
Dopo aver articolato ampiamente le istanze di necessità socio-economiche di
interventi legislativi a sostegno del reddito garantito, cercheremo ora di sintetizzarne
modalità di erogazione e meccanismi di efficacia nella prospettiva di
un’attuazione italiana del provvedimento. Il legislatore che volesse introdurre
una misura come quella di un reddito garantito dovrà confrontarsi con alcuni
parametri minimi di ragionamento, interrogandosi, in primo luogo, sui destina-
tari della misura (il reddito per chi), quindi sull’entità del provvedimento in
merito a quantità monetaria erogata (reddito quanto), sulla sua durata (reddito
quando), sulle modalità (reddito come). Infine, il legislatore dovrebbe individuare
gli enti erogatori (reddito da chi). Abbiamo inteso fare il punto su questi
parametri, tenendo presente le esperienze legislative europee.
Il reddito per chi?
Gli scopi fondamentali di una misura posta a garanzia del reddito sono sostenere
l’individuo nei momenti di bisogno e fronteggiare le cause di insicurezza
e di esclusione sociale. Nel delineare una possibile platea di beneficiari di un
reddito garantito occorre tenere in considerazione alcune questioni di ordine
sociale già emerse in questo percorso di analisi.
Il concetto di povertà non è sufficiente, da solo, a decifrare la natura degli attuali
fenomeni di impoverimento e marginalità cui dovrebbe rivolgersi un provvedimento
di sostegno al reddito. La costellazione dei soggetti precarizzati, include,
attualmente, lavoratori con salari che non garantiscono i livelli di sussistenza,
individui con rapporti discontinui di lavoro, migranti, donne sole con figli,
tutti soggetti impossibilitati a soddisfare bisogni sociali primari. A seguito delle
trasformazioni produttive degli ultimi decenni, abbiamo assistito all’emergere
di bisogni sociali propri di questi soggetti che modificano il profilo delle categorie
tradizionalmente beneficiarie di provvedimenti di sostegno al reddito. Nel
corso dell’analisi fin qui effettuata, abbiamo dato a questo processo il nome di
precarizzazione sociale, un fenomeno in Italia, come nel resto d’Europa, che ha
progressivamente spostato il focus delle priorità dall’individuazione di particolari
categorie di soggetti in stato di povertà all’individuazione di una condizione
generale di rischio di esclusione sociale.
A queste condizioni dovrebbe corrispondere una strategia legislativa che vada
al di là della semplice assistenza sociale e dell’inserimento lavorativo. Per realizzare
appieno una società definibile come “inclusiva” è necessario delineare per-
Non per i poveri,
ma contro il rischio
generale di
esclusione sociale
Tendenze europee
Caratteri principali
del reddito
in Europa
corsi concreti volti ad individuare diritti di base assolutamente non riducibili nel
diritto al lavoro, come la garanzia di accesso per tutti i cittadini a beni essenziali
quali l’alloggio, le cure mediche, l’istruzione, la formazione. La filosofia del
reddito minimo di inserimento francese istituito nel 1988 rappresenta simbolicamente,
per la legislazione europea, la presa d’atto della necessità che la lotta
all’esclusione sociale debba mirare all’allargamento costante dei confini della
cittadinanza a tutta la popolazione33, a prescindere dunque dalla prestazione di
lavoro. L’Rmi francese, infatti, ha dato l’avvio alla ristrutturazione dei sistemi di
protezione sociale degli inizi degli anni Novanta. Tale percorso, pur non esente
da criticità, ha condotto comunque all’introduzione, nella maggior parte dei
paesi europei, di reti di ultima istanza. Il nostro è l’unico paese europeo, insieme
alla Grecia, che ancora non si è dotato di un simile sistema.
Vediamo quali sono i caratteri principali delle legislazioni europee in merito alla
scelta dei destinatari del provvedimento.
-In quasi tutti i paesi europei il dispositivo prevede un d
ddi
iir
rri
iit
ttt
tto
oo s
sso
oog
ggg
gge
eet
ttt
tti
iiv
vvo
oo c
cch
hhi
iia
aa-
--
r
rro
oo, anche se in alcuni, come Spagna e Austria, vigono criteri di discrezionalità.
-Il provvedimento è destinato a coloro che vivono sotto una certa soglia
di reddito (sia esso il salario minimo, la pensione sociale o altro). Appare evidente
che questo è un indicatore essenziale per comprendere a quale platea di
beneficiari rivolgersi e, dunque, a quale filosofia politica ispirarli. Nel corso del
paragrafo descriveremo alcuni strumenti atti alla individuazione delle fasce
sociali potenzialmente interessate dal provvedimento.
-I beneficiari del provvedimento sono singoli individui. Fa eccezione la
Spagna, dove a beneficiarne sono le famiglie. In pressoché tutti i paesi europei
tale diritto è riconosciuto come soggettivo e individuale. Tale orientamento
sembra ad oggi l’unico percorribile, tanto più se consideriamo le trasformazioni
avvenute in Europa e in Italia in seno alle strutture sociali di base quali la
famiglia34 .
-La residenza e non la nazionalità è requisito indispensabile per accedere
agli schemi di sostegno al reddito. I paesi europei con fenomeni di immigrazione
decennale hanno una radicata impostazione tesa al riconoscimento
etnico e culturale nelle politiche sociali, dunque orientano la protezione del reddito
anche verso i cittadini immigranti residenti.
-L’età minima degli aventi diritto varia in Europa tra i 16 e i 25 anni.
33 De Rita C. e G. Monaldi, Orientamenti europei in materia di sicurezza sociale: una rassegna dei dispositivi
di ultima istanza, Isfol, 2003.
34 In Italia, negli ultimi dieci anni, sono aumentate le famiglie unipersonali, passate dal 19,8 per
cento al 24,3 per cento del totale delle famiglie. Sono, inoltre, raddoppiate le coppie non coniugate
e i nuclei familiari monogenitoriali (madre con figlio o padre con figlio) che rappresentano oggi
il 13,1 per cento del totale delle famiglie (Istat, 14° Censimento della popolazione, 2004).
Nella scelta dell’età di accesso molto dipende dalla portata dell’investimento
finanziario35, più che dall’inquadramento teorico del provvedimento.
Considerando le specificità della situazione italiana, rileviamo che una adeguata
calibratura del requisito dell’età combinata a quello dell’individualità del diritto
potrebbe impostare il nostro welfare a vantaggio dei soggetti più esposti ai
fenomeni di precarizzazione. Le difficoltà di questa fascia di popolazione sono
riscontrabili nelle statistiche ufficiali che vedono gli italiani tra i soggetti che più
a lungo in Europa permangono nei nuclei familiari di origine36 non avendo
nessun tipo di sostegno, come invece avviene negli altri paesi37.
Mentre la determinazione degli altri principi generali è intuitiva, per ciò che
concerne la scelta dei destinatari in riferimento alla soglia di povertà, è necessario
un approfondimento. Vedremo nel dettaglio gli strumenti di misurazione in
essa usati.
Strumenti di base per l’individuazione delle fasce reddituali degli aventi
diritto al sostegno del reddito
La determinazione della soglia di povertà è uno degli indicatori per la definizione
dei parametri delle politiche di welfare. Le misure della povertà in Italia e in
35 A titolo di esempio citiamo il caso della Francia. Nell’ultimo passaggio di riforma dell’Rmi avvenuto
nel 2003, nonostante l’esplicita la perplessità governativa nell’escludere dal dispositivo una
fascia di giovani in cerca di un primo inserimento, il limite di età per questioni di sostenibilità finanziaria
è stato mantenuto a 25 anni.
36La tavola che segue è un estratto dell’indagine comparativa sulla fertilità nei paesi europei. (elaborato
Istat su dati Onu, Fertility and family surveys, 2000).
maschi femmine
uscita fam. or. uscita fam. or.
AUSTRIA 21.4 19.1
BELGIO 23.7 21.7
FRANCIA 22.1 20
GERMANIA
OVEST
23 21
ITALIA 27.2 23.8
OLANDA 21.8 19.5
NORVEGIA 22 20.2
SPAGNA 26.5 23.8
37 Ci si riferisce, in particolare, ad alloggio e formazione. In alcuni paesi europei, come Germania
e Danimarca, con i 25 anni di età scatta un aumento della quota monetaria di reddito erogato che
tutela l’autosufficienza dei percorsi di inserimento sociale dei giovani nella società. In generale, politiche
di sostegno al reddito per i giovani sono presenti in tutta l’Europa continentale e del Nord,
ne sono un esempio le agevolazioni sull’affitto per giovani single, per le coppie, con e senza figli
(indipendentemente dal fatto che siano sposate), per i genitori soli o per la durata delle borse di studio.
Per quanto concerne l’Italia, sappiamo che è il paese con il più basso tasso di natalità in Europa
e, a questo proposito, l’ indagine Fertility and family surveys mostra una correlazione diretta tra politiche di
sostegno al reddito a favore dei giovani e livelli di natalità generale.
Europa sono prodotte dalle statistiche ufficiali. Fino al 1995 gli indicatori calcolati
hanno fatto riferimento alla povertà relativa. A partire da quella data, sono
stati introdotti anche indicatori basati sul concetto di povertà assoluta.
In generale, per misurare la povertà è necessario disporre della distribuzione di
reddito o della spesa per consumi relativa alla popolazione oggetto di studio. In
entrambi i casi la statistica ufficiale italiana, nella classificazione delle famiglie,
non fa riferimento al loro reddito, ma alla spesa sostenuta per l’acquisto di beni
e servizi, essendo il reddito una variabile difficilmente rilevabile. I dati di riferimento
attualmente utilizzati nel nostro paese, quindi, sono costituiti dalle informazioni
rilevate dall’Istat mediante l’indagine annuale sui consumi delle famiglie.
-La povertà assoluta sta ad indicare una carenza di beni e servizi considerati
essenziali nella comunità di riferimento. Per misurare la povertà
assoluta viene definito un paniere di beni e servizi essenziali, in grado di assicurare
alle famiglie uno standard di vita ritenuto accettabile nella comunità di
riferimento. Una volta definito il paniere è necessario procedere alla sua valutazione
monetaria, ovvero alla valutazione dell’ammontare monetario necessario
per acquistare i beni e i servizi inclusi nel paniere stesso. Secondo questa definizione
una famiglia viene considerata povera se le sue disponibilità economiche
sono inferiori al valore monetario del paniere. La povertà assoluta è, quindi,
definita come l’impossibilità di acquistare determinati beni e servizi indipendentemente dal
livello standard medio di vita della popolazione di riferimento.
- La povertà relativa sta ad indicare una situazione di svantaggio di alcune
persone o famiglie rispetto ad altre e, in questo senso, fornisce una misura
delle disuguaglianze presenti all’interno della popolazione. La linea di povertà
relativa si sposta di anno in anno a causa della variazione dei prezzi al consumo
e della spesa per consumi delle famiglie in termini reali e, dunque, dei loro
comportamenti di consumo. In funzione di un qualche parametro della distribuzione
della spesa per consumi, vengono determinati dei valori “soglia” in
base ai quali classificare le famiglie. La classificazione può essere effettuata
secondo le modalità di un carattere dicotomico (povera e non povera). In questo
caso viene determinato un solo valore soglia S0 (linea di povertà).
Una famiglia viene classificata come povera se la sua spesa per consumi è inferiore
od uguale al valore soglia. La classificazione in genere viene effettuata su
una gradazione del livello di povertà che implica quattro modalità: “sicuramente
povera”, “appena povera”, “quasi povera”, “certamente non povera”. In
questo caso occorre definire tre valori soglia (S-1 < S0< S+1). Una famiglia
viene classificata come “sicuramente povera” se ha una spesa per consumi
minore od uguale a S-1; “appena povera” se la spesa è maggiore di S-1 e minore
od uguale a S0; “quasi povera” se la spesa è maggiore di S0 e minore od
uguale a S+1; “certamente non povera” se la spesa è maggiore di S+1. La povertà
relativa è, quindi, definita in relazione al livello standard di vita medio della popolazione
di riferimento e non sulla possibilità o meno di acquistare beni e servizi ritenuti essenziali.
Stato di povertà e tipologia di famiglia dei destinatari
Indipendentemente dall’approccio utilizzato, nel misurare la povertà occorre tenere
conto della diversa struttura delle famiglie, sia con riferimento al numero di componenti che
alla loro composizione secondo caratteristiche correlate ai consumi (per esempio l’età). Si può
procedere in due modi diversi: calcolando una soglia di povertà in corrispondenza
di ogni tipologia di famiglie o calcolando una sola soglia per una famiglia
standard. Nel primo caso, la spesa della famiglia caratterizzata da una certa
struttura può essere confrontata con la soglia di povertà delle famiglie aventi la
stessa struttura. Nel secondo caso, prima del confronto, è necessario ricondurre
la spesa della famiglia con una determinata struttura alla spesa della famiglia
presa come standard. In altri termini, si calcola la spesa equivalente utilizzando
un’opportuna scala di raccordo (o conversione).
L’Istat calcola due indici di povertà: l’incidenza della povertà e l’intensità della povertà.
L’incidenza della povertà è data dal rapporto tra il numero delle famiglie povere e il
numero totale delle famiglie residenti. L’intensità della povertà misura di quanto la spesa
media delle famiglie classificate come povere si discosta dalla linea di povertà.38
E’ in generale previsto un altro indice che esprime la condizione economica
degli individui e delle famiglie: il cosiddetto Ise, ossia l’indicatore della situazione
economica. Questo strumento, introdotto con il D.Lgs. 31-3-1998, n.109, si
basa sui seguenti punti fondamentali: rispetto alla situazione economica relativa della
famiglia anagrafica (l’indicatore prende in considerazione sia i redditi correnti che
il complesso della situazione patrimoniale); rispetto al patrimonio familiare sono previste
delle franchigie per la disponibilità di risparmi liquidi (fino a circa 15 mila euro) e
delle detrazioni per la proprietà di un’abitazione di valore inferiore a circa 50 mila euro (dal
reddito familiare percepito si detraggono le spese sostenute a titolo di canone
di locazione). Dall’insieme di questi parametri si ottiene una cifra, conteggiata
in euro, che viene successivamente divisa per dei coefficienti fissi, determinati
dalla legge, che crescono in relazione all’aumentare dei componenti il nucleo
familiare. Tale coefficiente tiene conto anche della presenza di portatori di handicap
nel nucleo familiare, nonché della eventuale assenza di uno dei due genitori.
Le legge prevede che l’indice Ise debba essere utilizzato per selezionare l’accesso
alle prestazioni assistenziali
“non destinate alla generalità dei soggetti o comunque collegate […] a determinate
situazioni economiche”.
Attualmente le prestazioni per le quali la prova dei mezzi viene effettuata attraverso
l’Ise sono: l’assegno ai nuclei familiari numerosi, l’assegno di maternità,
l’Rmi, le borse di studio universitarie, i servizi di asilo nido, mense scolastiche
e assistenza domiciliare, le prestazioni in genere erogate dai Comuni. Sono,
invece, escluse dall’ambito applicativo dell’Ise le integrazioni al minimo delle
pensioni e le pensioni o gli assegni di invalidità.
38 In allegato: Gli indici di povertà: dettaglio statistico.
Disoccupazione
e indigenza
Tendenze europee
Reddito quando?
Altrettanto importanti nella determinazione dell’efficacia e della qualità della
misura posta a garanzia del reddito sono le questioni legate all’articolazione
concreta dell’ accesso al beneficio e alla sua decadenza. Ciò che abbiamo definito
condizioni di accesso e vincoli di mantenimento39 influenzano il grado di
copertura della norma.
Dall’analisi svolta si sottolinea l’esigenza di un provvedimento di sostegno al
reddito che riesca ad intervenire nei casi di squilibrio sociale indotto dalla precarietà,
laddove gli individui sono posti di fronte ad una disuguaglianza di
opportunità dovuta all’assenza di un reddito adeguato. Questo obiettivo può
essere raggiunto con le politiche attive di natura previdenziale, atte a garantire un
accesso stabile al reddito nei periodi di disoccupazione, ma anche in un quadro
di politiche passive di natura assistenziale, pensate per intervenire una volta
accertato lo stato di bisogno. Nel primo caso, avremmo un sussidio che interviene
nei momenti di disoccupazione mediante l’erogazione di una quota percentuale
della retribuzione percepita nel periodo di lavoro, come avviene, in
alcuni casi, anche in Italia40. Nel secondo caso, avremmo una misura di assistenza
per far fronte a situazioni di indigenza con l’erogazione di una quota di
entità predeterminata e uguale per tutti.
Anche in Europa le erogazioni di sostegno al reddito sono articolate secondo
questa logica. In ambito europeo, questo doppio binario mostra di non adattarsi
completamente alle mutate esigenze di protezione sociale. Spesso resta, infatti,
escluso dall’accesso ai sussidi di disoccupazione chi ha un rapporto con il
mercato del lavoro tanto discontinuo da non poter maturare i contributi previdenziali,
come pure chi ha un lavoro continuo, ma a basso reddito.
Il rischio di esclusione assume ad oggi la forma di condizione generale, come
ci indicano i piani di azione nazionali per l’inclusione sociale, più volte citati e
come si evince dal mutato orientamento dei dispositivi europei nei confronti
dell’assistenza e dei servizi sociali. Lo prova il fatto che tutte le azioni di inserimento
sociale e lavorativo previste per i beneficiari di sussidio (di carattere formativo, lavorativo,
di promozione sociale), ovvero quei soggetti considerati forza-lavoro attiva in temporaneo stato
di disoccupazione, sono state progressivamente estese ai beneficiari dell’assistenza sociale.Tra
gli altri ricordiamo a titolo esemplificativo, il caso dell’Olanda dove, con la riforma
del 1996, l’Algemeen bijstand wet (Abw) o reddito minimo garantito, diventa
un unico dispositivo che ingloba anche il sussidio per i disoccupati. D’altro
canto, per entrambe le forme di sostegno, è aumentato il grado di obbligatorietà
a sottoporsi a programmi di reinserimento, così come è più pressante anche
l’obbligo dei beneficiari a reintegrarsi accettando l’offerta di lavoro in quel
momento disponibile.
- In generale si è visto che i sussidi scattano in caso di disoccupazione,con
prestazioni previdenziali di entità proporzionale ai contributi versati e per un
39 Vedi capitolo Reddito in Europa.
40 Vedi capitolo Il sistema del welfare in Italia.
tempo che varia da paese a paese: dalla Danimarca in cui, maturato un certo
tetto di contribuzione, si acquisisce il diritto a 5 anni di sussidio, all’Italia, dove,
dopo 2 anni di versamenti all’Inps, si ha diritto ad 1 anno di sussidio. Una semplice
aritmetica della condizione sociale di precarietà può facilmente far dedurre
che, anche all’interno di un impianto classico di tipo contributivo, una condizione
economica di eleggibilità come quella posta dalla normativa italiana,
rende completamente vano il già limitato strumento del sussidio di disoccupazione.
In Inghilterra, ad esempio, la Jobseeker’s allowance ha natura sia contributi-
va (contribution based) per colui che ha versato un certo numero di contributi, che
assistenziale (income based) per chi non ha versato contributi sufficienti.
L’assistenza sociale scatta quando si accerta lo stato di bisogno degli individui
in riferimento ad una certa soglia di reddito. Nei paesi europei la
durata del provvedimento è tendenzialmente illimitata (non lo è in Francia,
Spagna e Portogallo dove però è suscettibile di rinnovo). In alcuni paesi come
Francia e Germania, al fine di determinare con certezza il momento in cui, data
la condizione economica, è possibile accedere all’assistenza, i redditi da lavoro
possono essere in parte non considerati nella valutazione complessiva del reddito
del richiedente, così come è irrilevante la proprietà di immobili se si accerta
il loro uso abitativo. Queste misure possono sommarsi ad altri contributi di
natura assistenziale. In Finlandia, a partire dal 2002, le misure previste propongono
una combinazione tra assistenza e un piccolo ammontare di reddito guadagnato.
In via sperimentale è stato introdotto un meccanismo che, nel definire
quando il richiedente è in possesso dei requisiti, prevede la possibilità di sommare
ad un salario l’erogazione dell’assistenza fino ad un ammontare tale per
cui l’assistenza risulti non superiore al 20 per cento del salario percepito.
Le disposizioni normative europee in materia prevedono il rispetto di
certe condizioni per il mantenimento del beneficio da parte del destinatario
e definiscono anche i criteri di cessazione dell’erogazione, ossia determinano
quando il beneficio decade. Durante il periodo di copertura previdenziale
gli individui beneficiari del sussidio devono seguire un piano di inserimento che
prevede una serie di azioni volte alla loro reimmissione nel mercato del lavoro.
Il ritorno all’autonomia sociale dell’individuo e, soprattutto, al suo inserimento
lavorativo, sono gli obbiettivi principali di queste misure. L’accento sulla volontarietà
di tali azioni varia da paese a paese come varia l’eventuale sospensione o
negazione del contributo nel caso di rifiuto da parte dell’individuo percettore di
sottostare a questo piano d’inserimento. Negli ultimi anni tale strategia di “reinserimento
sociale” è stata estesa anche ai percettori di assistenza. Come abbiamo
avuto modo di vedere41, l’orientamento di tali riforme va verso una maggiore
obbligatorietà delle azioni di integrazione nei programmi di assistenza.
Lungo questa linea di intervento, le condizioni di accesso e di mantenimento
degli schemi di assistenza si sono fatte più stringenti e meno inclusive.
Corollario di questa filosofia di “attivazione sorretta” contro il presunto rischio
41 Vedi capitolo Il reddito garantito in Europa.
di disincentivazione al lavoro, è la richiesta di disponibilità all’inserimento lavorativo
(e ciò vale sia per i sussidi di disoccupazione che per l’assistenza sociale)
42, un’obbligazione cui corrisponde una sanzione. Va detto comunque che
tale obbligatorietà, in particolare legata al lavoro, in molti paesi viene definita in
base alla “adeguatezza” dell’ inserimento professionale a partire dalle competenze
o alle esperienze pregresse del soggetto beneficiario. D’altro canto, abbiamo
spiegato come tali orientamenti derivino da esigenze di riordino finanziario
in quanto, più cresce l’esigenza sociale di misure per il sostegno al reddito, tanto
più, a parità di politiche di spesa, i bilanci pubblici risultano insufficienti. Ciò
dimostra quanto l’articolazione di un piano di sostenibilità finanziaria sia un
aspetto rilevante per un progetto di sostegno al reddito. Relativamente alla sua
introduzione in Italia, non è possibile evitare alcune considerazioni in merito.
In un contesto di stagnazione economica, come il nostro, in cui la precarizzazione
del mercato del lavoro ha acuito il divario sociale, una misura di sostegno
al reddito che fosse debole in termini di quantità erogata e forte nel produrre
obbligatori rispetto al mercato del lavoro, potrebbe favorire una dinamica di
dequalificazione professionale, di ribasso dei salari e delle condizioni di lavoro,
indirizzando gli individui verso i così detti lavori poveri, ovvero quelli retribuiti
con salari al di sotto della quota di assistenza. La realtà italiana, per esempio,
è fortemente condizionata dalla storica polarizzazione economica tra Nord e
Sud che ha indebolito fortemente la capacità del lavoro di produrre salari adeguati43.
Come dimostra anche l’esperienza del Rmi44, quando l’insufficienza di
reddito diventa un fenomeno di massa, e quando il reperimento di un impiego
stabile e soddisfacente diventa una chimera che riguarda una minoranza di soggetti,
le politiche sociali interamente centrate sull’obbligo al reinserimento lavorativo
danno luogo a gravi inefficienze.
42 In Belgio, Gran Bretagna, Irlanda, Lussemburgo, Olanda è previsto anche per i beneficiari del-
l’assistenza sociale l’obbligo a iscriversi ai servizi per l’impiego e l’obbligo di accettare qualsiasi proposta
di lavoro.
43 Nel corso della XIV legislatura è stato depositato in Parlamento un disegno di legge, il numero
2575-C, a firma Cento, Salvi ed altri - che prevede un’erogazione monetaria (accompagnata da alcuni
contributi per i consumi di base) per tutti i disoccupati pari approssimativamente a 650 euro
mensili; non prevede invece condizioni di decadenza dal beneficio, né viene richiesto al disoccupato
di accettare impieghi quale condizione per il mantenimento dell’erogazione.
44 Vedi capitolo Il sistema del welfare in Italia.
Reddito quanto?
Per definire la pertinenza della misura di sostegno al reddito occorre valutare i
livelli di spesa pubblica che essa implicherebbe sui bilanci dell’ente erogatore. A
questo scopo, sarà utile individuare alcuni elementi minimi di ragionamento che
siano propedeutici alla definizione degli obbiettivi redistributivi. Abbiamo visto
come le politiche di welfare orientate all’introduzione di un sostegno al reddito
tendano a favorire il reinserimento dei disoccupati nel mercato del lavoro e a
contrastare i rischi di marginalità sociale. Tuttavia, quanto finora esposto ha
messo in luce i molti vuoti di protezione che questa politica dicotomica induce
in Italia e in Europa.45 Ne deriva l’esigenza di politiche che introducano un sostegno la
cui entità possa rappresentare per i cittadini una possibilità reale di accesso a reddito e risorse
Nel precedente paragrafo è stata analizzata la soglia di “povertà” al fine di
stabilire i possibili destinatari. Questo parametro è utile, però, anche per definire
l’ammontare monetario del reddito di base.
Secondo i dati nazionali, nel 2004, la povertà relativa ha colpito quasi il 12 per
cento dei nuclei familiari, circa 7 milioni 588 mila persone. Il 68,7 per cento di
queste famiglie risiede nel Mezzogiorno. Per quanto riguarda la povertà calcolata
in termini di reddito (metodologia Eurostat), abbiamo un aggiornamento
all’anno 2000 che riteniamo comunque utile fornire. Secondo i dati del Panel
europeo delle famiglie, il 18,6 per cento della popolazione italiana (ovvero
10.580mila) vive al di sotto del 60 per cento del reddito mediano, di cui il 35,1
per cento nel Sud, il 6,9 per cento nel Nord e il 13,1 per cento al Centro. La
distribuzione del reddito all’interno di tale aree geografiche è ineguale, perciò
aumentano, evidentemente, le differenze in termini di coesione sociale.
Considerando il rischio di povertà rispetto al reddito e identificando le principali
categorie di persone colpite (ad esempio, famiglie numerose, giovani e
persone anziane), si constata che la povertà aumenta in funzione del numero di
minori presenti nel nucleo familiare. Appare evidente che il reddito monetario
costituisce solo una delle dimensioni della povertà. Per farsi un’idea precisa
della dimensione del fenomeno, occorre, infatti, tener conto di altri aspetti non
meno pertinenti quali l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’assistenza sanitaria,
il grado di soddisfazione dei bisogni essenziali. Fattori come il livello e la
qualità dell’istruzione scolastica, l’accesso alle conoscenze (specialmente in
materia di nuove tecnologie dell’informazione), l’abbandono del sistema scolastico
(nel Sud del paese, i giovani che abbandonano la scuola senza ottenere un
diploma sono otto volte più numerosi che nel Nord).
Nella tavola 1 e nel grafico 1 sono evidenziate le disparità economiche rispetto
alle aree geografiche46. Il reddito di base, in questo senso, risulterebbe uno strumento
utile a compensare indirettamente le forti polarizzazioni economiche a
livelli regionali, storicamente presenti in Italia. Inoltre, la tavola 2 evidenzia l’in-
Parametri per una
efficace politica
redistributiva
45 Ci si riferisce in particolare ai lavoratori precarizzati che, non maturando il diritto alla prestazione
contributiva, sono privi di sostegno e tutte le condizioni sociali che espongono al rischio di
esclusione sociale che i sistemi assistenziali non coprono.
46 Per le definizioni di povertà relativa, incidenza e intensità della povertà si faccia riferimento
all'appendice Gli indici di povertà: dettaglio statistico.
cidenza dell’ampiezza della tipologia familiare sui tassi di povertà e le differenze
per area geografica e la figura 1 ci mostra l’entità della popolazione povera
calcolata su tre differenti linee di povertà: i “sicuramente poveri”, ossia la fascia
di popolazione calcolati sotto la linea dell’80 per cento rispetto alla soglia di
povertà standard; gli “appena poveri”, situati sotto la linea standard; i “quasi
poveri”, ossia coloro che superano del 20 per cento la linea standard. Oltre questa
soglia ci sono le persone ritenute “sicuramente non povere”.
Tavola 1
Indicatori di povertà relativa per ripartizione geografica. Anni 2002-2004
(migliaia di unità e valori percentuali)
NORD CENTRO MEZZOGIORNO ITALIA
2003 2004 2003 2004 2003 2004 2003 2004
Migliaia di unità
Famiglie povere 584 512 253 324 1.564 1.837 2.401 2.674
Famiglie residenti 10.691 10.993 4.335 4.460 7.225 7.360 22.251 22.813
Persone povere 1.477 1.271 715 823 4.637 5.494 6.829 7.588
Persone residenti 25.580 25.911 10.903 11.046 20.482 20.581 56.965 57.538
Composizione percentuale
Famiglie povere 24,3 19.2 10.5 12.1 65.1 68,7 100,0 100,0
Famiglie residenti 48,0 48,2 19,5 19,6 32,5 32,3 100,0 100,0
Persone povere 21,6 16,8 10,5 10,8 67,9 72,4 100,0 100,0
Persone residenti 44,9 45,0 19,1 19,2 36,0 35,8 100,0 100,0
Incidenza della povertà
Famiglie 5,5 4,7 5,8 7,3 21,6 25,0 10,8 11,7
Persone 5,8 4,9 6,6 7,4 22,6 26,7 12,0 13,2
Intensità della povertà(%)
Famiglie 18,8 17,4 18,0 16,9 22,7 24,0 21,3 21,9
con 2 o più anziani 11,1 8,5 12,8 11,9 29,1 34,1 17,1 17,3
almeno 1 anziano 8,1 7,0 8,5 11,2 27,0 29,7 14,3 15,0
Fonte: Istat, indagine Consumi delle famiglie. La povertà relativa in Italia, 2004
Grafico 1
Povertà relativa per ripartizione geografica. Anni 2002-2004
(valori percentuali)
Fonte: Istat, Indagine consumi delle famiglie. La povertà relativa in Italia, 2004
Tavola 2
Incidenza di povertà relativa per ampiezza, tipologia familiare, numero
di figli minori e di anziani presenti in famiglia per ripartizione geografica
Anni 2002-2004 (valori percentuali)
NORD CENTRO MEZZOGIORNO ITALIA
2003 2004 2003 2004 2003 2004 2003 2004
Ampiezza della famiglia
1 componente 5,1 4,6 3,2 6,4 20,1 21,0 8,8 9,4
2 componenti 5,7 4,6 7,5 8,3 22,3 24,4 10,6 10,8
3 componenti 4,0 3,6 5,3 6,5 17,8 22,9 8,4 10,1
4 componenti 6,4 5,5 6,6 7,1 21,9 26,2 12,9 14,5
5 o più componenti 10,5 9,1 10,1 10,2 30,1 36,2 21,1 23,9
Tipologia familiare
Persona sola con meno di 65 anni 2,6 2,1 * * 9,2 10,8 4,0 4,3
Persona sola con 65 anni e più 7,5 6,8 4,2 10,0 26,6 28,2 12,9 13,7
Coppia con p.r. (a) con meno di 65 anni 2,0 1,8 * * 11,1 15,7 3,8 5,4
Coppia con p.r. (a) con 65 anni e più 9,4 7,2 12,2 11,2 28,5 30,9 15,8 15,1
Coppia con 1 figlio 3,6 3,2 4,8 5,5 15,9 21,9 7,5 9,1
Coppia con 2 figli 5,9 5,0 6,3 6,2 21,5 25,4 12,5 13,9
Coppia con 3 o più figli 11,2 7,8 7,9 * 28,2 33,1 21,0 22,7
Monogenitore 6,2 5,7 7,2 8,3 22,9 25,2 11,8 12,8
Altre tipologie 8,6 7,8 9,8 12,4 31,9 36,4 16,7 18,5
Famiglie con figli minori
con 1 figlio minore 3,8 3,7 4,4 6,3 19,6 22,9 9,4 10,6
con 2 figli minori 7,9 6,7 8,6 6,1 25,0 30,3 15,5 16,9
con 3 o più figli minori * * * * 31,9 41,0 21,7 26,1
almeno 1 figlio minore 5,7 5,2 6,2 6,5 23,2 27,8 12,7 14,1
Famiglie con anziani
con 1 anziano 6,6 6,3 6,1 10,8 26,0 27,5 12,9 13,9
con 2 o più anziani 11,1 8,5 12,8 11,9 29,1 34,1 17,1 17,3
almeno 1 anziano 8,1 7,0 8,5 11,2 27,0 29,7 14,3 15,0
Fonte: Istat, Indagine consumi delle famiglie. La povertà relativa in Italia, 2004
Figura 1
Famiglie povere e non povere rispetto a tre diverse linee di povertà
(composizione percentuale)
La povertà
nei paesi europei a
confronto
Fonte: Istat, Indagine consumi delle famiglie. La povertà relativa in Italia, 2004
La popolazione a rischio di povertà viene definita in base a una soglia relativa
al singolo paese. Come si vede nel grafico 2 riferito a dati del 2003, per una
famiglia di 2 adulti e 2 bambini, l’Italia ha una soglia più bassa non solo della
media dei 15 paesi “storici” della Ue, ma anche della media dell’Europa a 25.
Grafico 2
Valore soglia del rischio di povertà nei paesi europei per una famiglia
di due adulti e due bambini
Fonte: Eurostat, Income poverty and social exclusion in Eu25, Population and social
condition, 2005
Nel grafico 3 si evidenziano le disparità economiche nei diversi paesi europei.
Per misurare la disparità (inequality) nella distribuzione del reddito all’interno di
un paese viene comunemente utilizzato il cosiddetto S80/S20, ovvero il rapporto
tra reddito del 20 per cento della popolazione più ricco e quello più povero.
In Italia il valore indica una disuguaglianza leggermente maggiore rispetto alla
media europea, decisamente più elevata rispetto al nord Europa (Danimarca,
Germania, Olanda, Austria, Finlandia e Svezia), ma inferiore rispetto a
Portogallo, Grecia, Spagna e Gran Bretagna.
Grafico 3
I paesi europei in rapporto all’indicatore S80/S20
Fonte: elaborato su Eurostat, Income poverty and social exclution in Eu25. 2005
http: //europa.eu.int/comm/eurostat/structuralindicator
Possiamo tentare di fornire alcuni elementi di confronto in merito alla entità
erogata dai paesi europei. A questo scopo, confrontiamo l’ammontare di reddito
trasferito nei paesi europei a titolo di reddito di ultima istanza, ponendolo in
relazione con il reddito medio percepito a livello individuale o familiare. Il Gdp
(Prodotto nazionale lordo) è l’indicatore più utilizzato per misurare la ricchezza
di un paese. L’indice del Gpd pro capite (definito Gni) in Pps
(Purchasing power standard) è utilizzato per la comparazione tra paesi, poiché elimina
le differenze nei livelli di prezzo.
Tavola 3
Prodotto Nazionale Lordo pro capite (GNI) a parità di potere d’acquisto,
Unione Europea, 2006 (previsioni)
Le politiche di
redistribuzione
del reddito
in Europa
Paese EU-25 EUR BE CZ DK DE EE EL ES FR IE IT CY LV LT
GNI 2006
(€)
24,100 25,500 28,500 17,500 29,400 25,800 13,300 20,000 23,700 26,500 34,300 24,900 19,900 11,500 12,500
Paese LU HU MT NL AT PL PT SI SK FI SE UK NO US JP
GNI 2006
(€)
54,600 15,300 16,900 28,300 29,200 11,800 17,100 19,400 13,300 28,100 28,200 29,000 37,500 37,500 27,600
Fonte: Eurostat, Income poverty and social exclution in Eu25, Population and social
condition, 2005
Dai dati Missoc (Sistema informativo comune sulla protezione sociale negli stati membri
dell’Ue e nell’area economica europea) possiamo estrapolare un indice di misura di
quanto viene erogato dai singoli stati a ciascun individuo beneficiario quale reddito
di ultima istanza, in particolare sul reddito minimo fornito a un individuo
che vive da solo o a una persona che vive in una coppia senza figli (escludendo,
cioè, gli assegni familiari o i redditi addizionali per i figli). Confrontando
questi dati (in alcuni casi variabili a seconda della regione) con i livelli del Gdp
pro capite, otteniamo un indicatore che ci dice quanto lo Stato fornisce in proporzione
alla ricchezza media individuale nelle singole realtà nazionali. Si tenga
conto, in generale, che il rapporto illustrato nella tavola 4 si riferisce unicamente
alla quota di reddito erogata direttamente in forma monetaria, il che penalizza
quei paesi che presentano una ampia struttura di reddito indiretto che va ad
aggiungersi a quello monetario.
Tavola 4
Paese Reddito erogato a un individuo Reddito erogato a un individuo in
coppia GNI 2006 (€) % individuo (min) % individuo (max) % in coppia
(min)% in coppia (max)
Paese
Reddito
erogato
a un
individuo
Reddito
erogato
a un
individuo
in coppia
GNI 2006
(€)
%
individuo
(min)
%
individuo
(max)
%
in coppia
(min)
%
in coppia
(max)
Belgio 613,3 408,9 28,500 25.8 25.8 17.2 17.2
Danimarca
743,01153,0
743,01153,0
29,400 30.3 47.1 30.3 47.1
Germania 345,0 310,5 25,800 16.0 16.0 14.4 14.4
Francia 425,4 319,0 26,500 19.3 19.3 14.4 14.4
Irlanda 645,0 536,5 34,300 22.6 22.6 18.8 18.8
Lussemburgo 1044,8 783,6 54,600 23.0 23.0 17.2 17.2
Olanda 549,6 549,6 28,300 23.3 23.3 23.3 23.3
Austria 401,6519,2
295,5384,9
29,200 16.5 21.3 12.1 15.8
Portogallo 164,2 164,2 17,100 11.5 11.5 11.5 11.5
Finlandia 362,2378,5
308,0324,2
28,100 15.5 16.2 13.2 13.8
Svezia 289 263 28,200 12.3 12.3 11.2 11.2
Gran Bretagna 669 440,5 29,000 27.7 27.7 18.2 18.2
Norvegia 504 419 37,500 16.1 16.1 13.4 13.4
Fonte: Missoc, Eurostat
Per la Danimarca, il valore varia in base all’età (sotto o sopra i 25 anni); per la
Svezia, la misura monetaria non include le erogazioni di servizi essenziali (alloggio,
riscaldamento, spese di base) il che fa risultare il sussidio più contenuto di
quanto realmente sia; per l’Austria, gli importi variano in riferimento alla regione.
La tavola 4 rivela la misura del reddito fornito da ciascun paese europeo, in rela
zione al reddito medio pro capite. Si osserva che l’erogazione di reddito si mantiene
sempre assai lontana dalla soglia del reddito medio. I paesi del nord
Europa (Belgio, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Gran Bretagna) si attestano
su percentuali comprese tra il 25 per cento e il 30 per cento, quelli dell’Europameridionale si collocano tutti sotto il 20 per cento. È evidente che i dati così
ottenuti sono assai imperfetti, perché non tengono conto delle variazioni regionali,
né delle erogazioni aggiuntive previste, quali contributi agli affitti, sostegno
per le utenze, eccetera.
Grafico 4
Confronto spesa per prestazioni sociali per gruppi di funzioni 2002 in
Italia e Ue (percentuale spesa totale per prestazioni sociali)
Fonte: Elaborazione Sacchi S. su dati Eurostat: European Social Statistics. Social
Protection. Expenditure and Receipts. 1994-2002, Lussemburgo, 2005.
Grafico 5
Altre prestazioni sociali 2002 in Italia e Ue (percentuale della spesa totale per prestazioni
sociali)
Fonte: Elaborazione Sacchi S. su dati Eurostat, European Social Statistics. 2005.
Reddito come?
Data l’attuale struttura dell’ordinamento previdenziale ed assistenziale nel
nostro Paese, l’introduzione di un sistema di sostegno del reddito implica una
generale rimodulazione della spesa pubblica e un vasto processo di redistribuzione
delle risorse. Alcuni contributi oggi versati all’Inps potrebbero andare a
finanziare il fondo destinato a sostenere l’erogazione del reddito garantito.
Alcune risorse dovrebbero essere reperite tramite nuove forme di tassazione.
Come avviene negli altri paesi europei, anche in Italia molti degli strumenti oggi
esistenti di sostegno al reddito (se pure assai deboli), potrebbero essere attivati
in sinergia a fronte di situazioni di grave povertà e svantaggio sociale. La capacità
dell’intervento dipenderà dal grado di armonizzazione delle modalità di erogazione
distinguendo tra un reddito in forme indirette (con relativa messa a disposizione per il
destinatario di beni e servizi miranti alla soddisfazione di bisogni primari) da un reddito
diretto che implichi risorse di tipo monetario). Fermo restando che l’obbiettivo minimo
è quello di assicurare riproduzione e cittadinanza sociale a tutti i soggetti a
rischio di esclusione sociale, l’erogazione potrebbe comporsi sia di una parte
monetaria, sia di una parte offerta in natura, come assicurazione di beni primari.
La tabella 4 (capitolo L’esperienza della precarietà) indica gli elementi di rischio
che incidono negativamente sulla vita degli individui precari e sinteticamente
associa ad ogni fattore di incertezza il bene o servizio correlato.
In questa direzione si orientano i legislatori europei. Come abbiamo ampiamente
visto, infatti, nell’esperienza europea le misure assistenziali di ultima istanza
prevedono di regola delle erogazioni di servizi in natura (soprattutto sanità e
istruzione) e delle integrazioni monetarie per far fronte in proprio all’ acquisto
di determinati beni essenziali. Quasi tutti i sistemi europei prevedono contributi
eccezionali in caso di spese impreviste o considerevoli, relative ad esigenze di
riscaldamento o di gestione domestica, di sepoltura o di saldo degli interessi per
crediti immobiliari.
In Germania, oltre ad un’articolata indennità per l’alloggio, esiste un contributo
per le spese di abbigliamento e di mobilio. In Islanda il welfare sussidia, tra
l’altro, l’acquisto di veicoli a motore, in Olanda le gite scolastiche, in Irlanda gli
apparecchi domestici indispensabili, eccetera. Proviamo a tracciare alcune questioni
connesse alla realizzazione di una normativa sui servizi legati ai bisogni
primari.
-Per quanto attiene la questione della mobilità, per i pendolari a basso reddito,
una parte del servizio potrebbe essere gestito in termini di agevolazioni sul
prezzo del biglietto, le quali potrebbero essere introdotte modulando il regime
di concessione dei servizi di trasporto stesso. La Regione avrebbe, ad esempio,
la possibilità di subordinare l’assegnazione dell’appalto per il trasporto ferroviario
regionale, al rispetto, da parte dell’azienda di trasporto, di determinate clausole
sociali.
- Soluzioni analoghe, potrebbero disciplinare, questa volta a livello nazionale
con competenza diretta dello Stato, l’erogazione di servizi domestici quali la
Reddito diretto e
reddito indiretto
Tendenze europee
Alcune proiezioni
dall'esempio
europeo
telefonia, l’energia elettrica, il gas. Al rilascio del servizio in concessione alle
aziende erogatrici, si potrebbe inserire, come clausola, un contributo indiretto
per il finanziamento delle misure di garanzia del reddito, con l’agevolazione
delle tariffe per i soggetti aventi diritto.
-Per la garanzia dell’alloggio, oltre all’ovvia necessità di accrescere il patrimonio
residenziale pubblico, si potrebbe prevedere un’ulteriore contributo
monetario in favore di quei beneficiari che non siano proprietari di casa in
aggiunta all’erogazione monetaria “di base”, come avviene in Francia e in
Germania; Per evitare un elemento peggiorativo nella dinamica del caro-affitti,
quest’intervento dovrebbe tener conto di soluzioni già sperimentate altrove in
Europa. Ricordiamo in merito il caso della programmazione territoriale olandese,
nel cui ambito le imprese edilizie che erigono abitazioni, sono obbligate a
destinare una parte delle costruzioni ad alloggi con canoni di affitto popolari.
Anche in questo caso, si induce l’impresa privata ad assumere su di sé oneri di
interesse pubblico. La proprietà privata è chiamata a contemperare, nell’esercizio
stesso dell’attività di impresa, le proprie esigenze di profitto con le più complessive
esigenze comuni di convivenza civile.
-Per quanto attiene alla formazione può essere ipotizzata innanzitutto una
ampia accessibilità, l’assegnazione al beneficiario di un fondo spese e\o di un
voucher spendibile in iniziative formative certificate dalla Regione, rispetto alle
quali il percettore beneficiario potrà esercitare un diritto di scelta.
Reddito da chi?
A questo punto, individuato il destinatario del beneficio, analizzata la tempistica
dell’erogazione e gli eventuali vincoli, calcolata la misura di un intervento
adeguato alla soddisfazione dei bisogni primari e, infine, prospettate le modalità
di attivazione, non ci resta che definire l’ultimo tassello della nostra analisi,
ovvero l’individuazione del soggetto preposto all’erogazione del reddito e dei
servizi. Concentriamo l’attenzione sullo Stato e sulle Regioni, ossia sulle articolazioni
del potere pubblico più estese territorialmente e più forti economicamente.
Nella prima parte del presente lavoro, abbiamo visto che non è semplice individuare
in modo univoco l’attribuzione della sfera di competenze tra Stato e
Regioni in tema di reddito garantito. A titolo di considerazione generale, ricordiamo
che la materia denominata “servizi sociali” o “assistenza sociale”, non
menzionata nell’art. 117 Cost., deve considerarsi ormai attribuita per intero alla
competenza regionale. D’altro canto, occorre fare i conti con la prima parte
della Costituzione, in riferimento all’art. 38 (rimasto immutato dopo la modifica
del Titolo V) a norma del quale gli strumenti previdenziali e assistenziali
devono essere erogati tramite
“organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”.
Il possibile sdoppiamento delle competenze è testimoniato, oltre che dalla lettura
del testo costituzionale, anche dal comportamento dello stesso legislatore
statale e dei legislatori regionali. Si consideri, infatti, che nel corso della XIV
legislatura sono state depositate in Parlamento tre proposte di legge tese ad
introdurre una qualche forma di garanzia del reddito: una promossa da
Rifondazione comunista, una seconda sottoscritta dai Verdi, dai Comunisti italiani
e da alcuni esponenti dei Democratici di sinistra, una terza ascrivibile
all’area politica dell’Ulivo47. Le prime due proposte attribuiscono al Ministero del
welfare il compito di erogare la misura e individuano a livello statale il compito
di reperire le risorse necessarie alla copertura finanziaria della legge. La terza, di
area dell’Ulivo, pur riconoscendo alle Regioni il compito di provvedere alle erogazioni,
prevede, per il reperimento delle risorse, la costituzione di un fondo
nazionale presso il Ministero del welfare.
Tutte le proposte di legge attualmente depositate in Parlamento concordano
nell’attribuire allo Stato le competenze in tema di reddito garantito. Le Regioni,
dal canto loro, laddove hanno inteso progettare degli interventi, lo hanno fatto
considerando pienamente sussistente una loro competenza in materia. Nel caso
più noto, quello campano, si è dato rilievo al fatto che l’assistenza sociale, in
quanto materia innominata nell’art. 117, è da considerarsi ascritta alla competenza
di livello regionale. Scelte non dissimili hanno cominciato ad intraprendere
l’Emilia Romagna (che con l’art. 13 l.r. 2/2003 ha stabilito di voler incenti
47La prima proposta è il ddl 872-C a firma Bertinotti e altri intitolata Istituzione della retribuzione
sociale, la seconda , proposta è il ddl 2575-C a firma Cento-Salvi e altri intitolata Istituzione del reddito
sociale per il sostegno contro la disoccupazione e la precarietà sul lavoro, la terza proposta è il ddl 3619-C,
intitolata Istituzione del reddito minimo d'inserimento.
vare programmi per la sperimentazione del Reddito minimo d’inserimento) e la
Toscana (che con l’art. 14 l.r. 41/2005 ha stabilito: “La Regione può attivare
sperimentazioni per l’erogazione di trattamenti economici […] ivi compreso il
reddito di cittadinanza sociale”). Si vede come i soggetti istituzionali che si sono
finora interessati al tema del reddito garantito, hanno considerato indifferentemente
la materia, talvolta attribuita alla competenza statale, altre volte regionale.
Ciò a testimonianza del fatto che, dopo la riforma del Titolo V, non si è
ancora consolidato un atteggiamento condiviso in questo ambito.
Il governo, dal canto suo, in alcuni testi del 2003, ha manifestato la propria opinione
in proposito, lasciando intendere di voler realizzare uno strumento assistenziale,
nell’immediato futuro (secondo le dichiarazioni di allora), denominato
reddito di ultima istanza, che dovrebbe scaturire da una sorta di co-finanziamento
tra Stato e Regioni. Nel Libro bianco sul Welfare48 si legge:
“Si è stabilito di individuare un nuovo sistema -il reddito di ultima istanza-
da realizzare e co-finanziare in modo combinato con il sistema regionale
e locale”.
Poco tempo dopo, la legge finanziaria 2004 (L. 350/03) all’art. 3 comma 101 ha
stabilito che
“lo Stato concorre al finanziamento delle Regioni che istituiscono il reddito
di ultima istanza quale strumento di accompagnamento economico”.
Queste dichiarazioni di intenti non hanno trovato ancora un’applicazione compiuta.
Tuttavia le indicazione date dal Governo per quel che riguarda il riparto
di competenze parrebbero convincenti. Dato l’assetto istituzionale vigente in
Italia, una misura posta a garanzia del reddito non potrà che nascere dalla sinergia
tra Stato e Regione. Architrave di questo impianto è la nuova norma di cui
all’art.117 comma 2 lettera “m” della Costituzione, secondo la quale allo Stato
spetta
“la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale”.
Per esclusione e sottrazione, alle Regione spetterà l’erogazione di tutte quelle
prestazioni sociali che potranno considerarsi al di fuori di quelli che sono definiti
come “livelli essenziali”.
Allo Stato spetteranno le prestazioni che riguardano i livelli essenziali delle erogazioni
sociali, non intesi come “livelli minimi”, bensì come quantità di erogazione
necessaria e adeguata a soddisfare il bisogno sociale individuato dal legislatore.
Alla Regione spetterà, invece, la facoltà di erogare la quantità ulteriore
di reddito e di servizi, ossia tutto ciò che superi i livelli essenziali, sia come
intensità dell’erogazione, sia come estensione dei soggetti destinatari delle prestazioni
offerte.
Questa interpretazione del diritto in tema di competenza tra Stati e Regioni
48Ministero del welfare, Febbraio, 2003: 37.
appare la più plausibile e coerente con gli indirizzi prevalenti nel sistema del
welfare europeo, con eccezione della Spagna. Qui le singole Regioni hanno
competenza assoluta nell’erogazione delle misure in materia di garanzia di reddito.
È, però, una regola costante, in Europa, l’attribuzione delle competenze
allo Stato, sia per quanto riguarda la disciplina dei sussidi di disoccupazione, sia
per quanto attiene alla predisposizione delle reti di ultima istanza. Ciò accade
anche in uno stato federale come la Germania, in cui il potere dei Lander è soltanto
residuale e attiene ad erogazioni ulteriori rispetto a quelle provenienti dal
livello federale.
D’altra parte, è la stessa struttura sociale italiana a consigliare un investimento
di risorse provenienti principalmente dallo Stato. Va rilevato, infatti, che la tendenza
alla polarizzazione dei redditi ha, nel nostro Paese, un forte carattere territoriale.
In tutte le Regioni del Centro-nord il reddito familiare supera la media
nazionale, mentre nelle regioni del Sud e nelle isole si riscontrano i valori più
bassi della media. Gli indici riferiti al reddito pro-capite mostrano una variabilità
territoriale ancora maggiore, visto che le regioni meridionali più poveresono anche quelle con maggior numero medio di componenti per famiglia. È
noto che le aree dove la disoccupazione è più preoccupante e dove sono localizzate
le maggiori sacche di povertà si trovano prevalentemente nelle zone
meridionali del Paese. A ciò si aggiunga che la spesa statale pro-capite destinata
ai residenti nel mezzogiorno, relativamente ai settori dell’istruzione, della previdenza,
dell’edilizia pubblica o della sanità, è sensibilmente inferiore alla media
nazionale. A fronte di questi dati è facile concludere che una più equa ripartizione
delle risorse non può avvenire che a livello nazionale: le regioni del Sud
e delle Isole si troverebbero in difficoltà nel garantire gli stessi livelli di protezione
del reddito di quelle del Nord.
In generale, comunque, la precarizzazione del lavoro, il rischio pervasivo di
povertà e di esclusione sociale, l’erosione delle garanzie sociali acquisite si manifestano
con un’intensità tale da richiedere un investimento complessivo, in termini
finanziari e politici, da parte di tutte le istituzione del Paese.
Coerentemente, sulla base del testo costituzionale e in analogia con l’esperienza
europea, può ipotizzarsi un ruolo prioritario da parte dello Stato nell’erogazione
delle prestazioni che saranno considerate “essenziali” e un ruolo sussidiario
da parte di tutti gli altri enti territoriali, prime fra tutti le Regioni. Ciò creerebbe
un sistema del welfare integrato basato sui due livelli con un riparto di
competenze che vedrebbe le Regioni maggiormente attive sul piano dell’erogazione
dei servizi e lo Stato centrale concentrato sul piano dell’erogazione
monetaria. Infatti, il nuovo testo dell’art. 117 Cost. assegna alle Regione la competenza
a decidere su materie quali istruzione, sanità, trasporti che potrebbero
essere oggetto di una eventuale erogazione in natura di beni e servizi.
L’integrazione tra livello statale e regionale potrebbe raggiungere un adeguato
livello di efficacia se vi fosse una omogeneità circa l’individuazione della platea
dei beneficiari. A tal fine, le varie istanze decisionali dovrebbero avere una politica
condivisa circa le soglie di ricchezza da cui far partire la misura di tutela e
circa eventuali condizioni di decadenza dei due sistemi integrati.
In conclusione, l’intervento regionale dovrebbe essere interpretato come primo
livello di un intervento che avrà probabilmente necessità, per compiersi intera
mente, di sedimentare una cultura politica e una sensibilità sociale condivise a
diversi livelli istituzionali. In questo senso, una eventuale legge regionale in
tema di reddito garantito, avrebbe oggi, in assenza di una cornice legislativa a
livello statale, una rilevante utilità politica Dovrebbe trattarsi di una proposta di
legge capace di alludere in modo corretto all’applicazione dei principi costituzionali,
di individuare in modo convincente le soglie di accesso alla misura, di
prefigurare l’ammontare complessivo dell’erogazione, in una parola, di confrontarsi
in modo innovativo con le problematiche che attraversano il welfare
europeo.
Tabella 8
Scheda: la definizione dei parametri della misura di sostegno al reddito
Per chi
Lavoratori a regime di prestazione flessibile
Individui sotto una determinata soglia di povertà
Quando
In stato di discontinuità di reddito
In stato di inattività lavorativa
Come
Diretto Erogazione monetaria
Indiretto Beni e servizi primari
Quanto
Soglia di base Indicizzato a partire da una soglia di povertà
Aliquota aggiuntiva Per figli e alloggio
Stato Livelli essenziali
Da chi
Regione
Servizi primari
Integrazioni monetarie sussidiarie
Bibliografia 1
Il dibattito sul B
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tra il 1960 e il 2005
La presente bibliografia é redatta con lo scopo di offrire al lettore gli strumenti per organizzare in
modo immediato e chiaro le numerose implicazioni sul Basic income. A questo riguardo si é realizzato
un apparato bibliografico che, in sintonia con gli scopi complessivi della ricerca, può fornire suggerimenti
per l’approfondimento dei temi trattati.
Lo stato attuale degli studi sul Basic income, a fronte di una moltiplicazione degli approcci, sconta una
indubbia mancanza di ordine storiografico. Si é ritenuto utile, per questo, disporre gli scritti sul Basic
income in ordine cronologico. La bibliografia copre un arco temporale che va dal 1960 fino ad oggi.
Essa é presentata al lettore in sezioni che dividono il materiale documentale per decenni. All’interno
di queste sezioni i contributi sono presentati, a loro volta, in ordine alfabetico.
Data la consistenza della letteratura a riguardo -si tratta di circa 3.500 titoli pubblicati, più alcune
migliaia di contributi di altro tipo-, si è ritenuto di selezionare il materiale a disposizione sulla base
del criterio di rappresentatitività. Si é dato maggiore spazio a testi di immediata reperibilità, redatti
nelle principali lingue e rintracciabili in riviste di larga diffusione. Si é così proceduto a selezionare
i contributi rivelatisi negli anni dei riferimenti indispensabili nella discussione sul Basic income, cercando
allo stesso tempo di dare rilevanza a quelli di più facile reperibilità.
Sono, inoltre, disponibili numerosi web site dove é possibile reperire gratuitamente molte pubblicazioni.
Questi siti sono uno strumento fondamentale di approfondimento e costituiscono una base
informativa indispensabile per l’aggiornamento; tra questi segnaliamo in particolare quello del Bien
(Basic income earth network).
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Allegati
………………………………………………………………………………
Gli indici di povertà:
dettaglio statistico
………………………………………………………………………………
Misura della povertà relativa
Per misurare la povertà relativa occorre determinare un valore “soglia” o linea
di povertà, nota anche come International Standard of Poverty Line (Ispl), il cui
indice permette di classificare le famiglie in base ad un certo livello di povertà.
Avremo così una suddivisione in famiglie povere e famiglie non povere, dove la linea
di povertà è data dalla spesa media per consumi pro-capite, stimata sulla base
dei dati rilevati con l’indagine sui consumi delle famiglie italiane:
dove:
Ispl = linea di povertà
n = numero di famiglie campione
i = indice di famiglia
Si = spesa mensile per consumi della famiglia i-esima
wi = coefficiente di espansione all’universo della famiglia i-esima
La quantità a numeratore rappresenta la stima della spesa mensile sostenuta
(effettuata) da tutte le famiglie italiane, mentre il denominatore è la stima del
numero totale dei componenti.
Il rapporto (Ispl) è la stima della spesa media per componente (pro-capite). Il
valore di Ispl viene preso come valore soglia per classificare come povere o non
povere le famiglie con due componenti. Sulla base di questo, una famiglia con
due componenti viene considerata povera se ha una spesa media mensile per
consumi inferiore od uguale a Ispl. Nella classificazione si tiene conto solo del
numero dei componenti il nucleo familiare, non già delle loro caratteristiche
(per esempio l’età.)
Relativamente alle famiglie con un numero di componenti diverso da due, si
procede al calcolo della spesa mensile equivalente, ovvero si corregge la spesa
sostenuta dalla famiglia per renderla equivalente a quella di una famiglia con
due componenti. In altri termini, per rendere omogeneo il dato, invece di calcolare
un valore soglia differenziato a seconda del numero di componenti della
famiglia, si produce un unico valore soglia relativo alle famiglie con due componenti.
In pratica, per classificare una famiglia con un numero di componenti
diverso da due, si deve procede prima al calcolo della spesa equivalente, correggendo
la spesa effettivamente sostenuta mediante un fattore di scala:
.
dove:
i = indice di famiglia
h = numero di componenti della famiglia
SEih = spesa per consumi equivalente della famiglia i-esima con h componenti
Sih = spesa sostenuta dalla famiglia i-esima con h componenti
Ch = coefficiente della scala di equivalenza per le famiglie con h componenti
Il coefficiente di correzione è minore di 1 (< 1) per famiglie con un solo componente,
uguale ad 1 (= 1) per le famiglie con due componenti e crescente
all’aumentare del numero di componenti.
Esistono diverse scale di equivalenza. Quella attualmente utilizzata dall’Istat è
la scala di Carbonaro, con coefficienti variabili da 0,60 - per famiglie con un
componente - a 2,40 -per famiglie con 7 o più componenti.
Un criterio alternativo che consente di classificare le famiglie secondo la povertà
relativa è quello di determinare i valori soglia (linee di povertà) a seconda del
numero dei componenti della famiglia. Le linea di povertà per le famiglie di k
componenti si ottiene dividendo la linea di povertà per le famiglie di due componenti
per il coefficiente di correzione desunto dalla scala di equivalenza adottata:
Tabella A.1
Scala di equivalenza e linea di povertà relativa per ampiezza della famiglia
Ampiezza della famiglia
Coefficienti della scala
di equivalenza
Linea di povertà relativa (euro)
1 0,60 551,99
2
(linea standard)
1,00 919,98
3 1,33 1.223,57
4 1,63 1.499,57
5 1,90 1.747,96
6 2,16 1.987,16
7 o più 2,40 1.976,28
Una volta determinata la linea di povertà e scelta la scala di equivalenza, si procede
a classificare ciascuna famiglia campione in povera o non povera.
Ogni anno l’Istat procede alla determinazione del numero di famiglie povere,
secondo la nozione di povertà relativa, elaborando i dati rilevati mediante l’indagine
sui consumi delle famiglie.
Una famiglia con k componenti (k=1, 2, (…), 7 o più) viene classificata povera,
secondo la nozione di povertà relativa, se la sua spesa mensile è inferiore o
uguale alla linea di povertà delle famiglie con lo stesso numero k di componenti.
Misura della povertà assoluta
Accanto alla soglia di povertà relativa l’Istat utilizza anche una soglia di povertà
assoluta, calcolata sulla base del valore monetario di un paniere fisso di beni
e servizi essenziali. Il valore monetario del paniere viene rivalutato annualmente
per tenere conto della variazione dei prezzi al consumo. L’unità di riferimento
per la definizione del paniere è la famiglia, intesa come insieme di persone
coabitanti, legate da vincoli affettivi o di parentela. Attualmente il paniere è
costituito da tre grandi componenti: quella alimentare, quella relativa all’abitazione
e una componente residuale che rappresenta tutti gli altri beni e servizi
necessari alla famiglia stessa. Per tenere conto dei diversi comportamenti di
consumo, nella determinazione delle tre componenti del paniere sono state
prese in considerazione 36 tipologie familiari, rappresentative delle modalità più
diffuse nel nostro Paese. Le tipologie variano secondo il numero (da 1 a 7 e più)
e l’età dei componenti: (meno di 18 anni, da 18 a 59 anni, 60 anni ed oltre.) La
dimensione della famiglia è determinante per la definizione delle economie di
scala, soprattutto in riferimento alle spese relative all’abitazione e all’acquisto di
beni durevoli. L’età dei componenti è indispensabile per la definizione della
componente alimentare e di quella residuale. La distribuzione del numero delle
famiglie per tipologia è stata calcolata sui dati dell’indagine sui consumi. Sia i
valori di ciascuna componente del paniere che il suo valore totale vengono calcolati
con riferimento a ciascuna delle 33 tipologie familiari. I valori monetari
dei panieri vengono successivamente sintetizzati e calcolati per la sola ampiezza
familiare.
Così, relativamente alle famiglie con un componente si hanno due tipologie: un
componente con età compresa tra 18 e 59 anni e un componente con 60 anni
ed oltre. Il valore monetario del paniere per le famiglie con un componente si
ottiene come media aritmetica ponderata dei valori del paniere relativi alle due
tipologie, con pesi uguali alla frequenza delle due tipologie.
Al termine di questa operazione di sintesi, vengono determinati sette valori
soglia (soglie di povertà assoluta) da utilizzare per classificare in povere o non povere
le famiglie con uno, due, …, sette componenti e più. Le componenti del
paniere rimangono invariate nel tempo, mentre annualmente vengono rivaluta-
ti i valori monetari delle soglie sulla base dell’indice dei prezzi al consumo.
Tabella A.2
Ampiezza della famiglia
Valore monetario del paniere mensile in euro
Anno 2003 Anno 2004
1 componente 373,33 382,66
2 componenti 559,63 573,63
3 componenti 794,89 814,77
4 componenti 1.006,60 1.031,77
5 componenti 1.268,70 1.300,42
6 componenti 1.462,25 1.498,82
7 o più componenti 1.650,04 1.691,30
Ogni anno l’Istat procede alla determinazione del numero di famiglie povere,
secondo il criterio della povertà assoluta, elaborando i dati rilevati mediante l’indagine
sui consumi delle famiglie. Una famiglia con k componenti (k = 1, 2,
(…) , 7 o più), viene classificata povera se la sua spesa mensile è inferiore o
uguale al valore soglia delle famiglie con lo stesso numero k di componenti.
Incidenza della povertà
L’incidenza indica quanto la povertà sia diffusa, ma non dà una informazione
quantitativa su quanto siano povere le famiglie classificate come tali. Una famiglia
è tanto più povera quanto più la sua spesa mensile per consumi differisce
dalla linea di povertà. Pertanto, un indicatore dell’intensità della povertà sarà
basato sulla differenza tra la spesa della famiglia (spesa equivalente nel caso di
povertà relativa) e la corrispondente linea di povertà.
dove:
HCR = incidenza della povertà (Head count ratio)
n = numero di famiglie campione
p = numero di famiglie campione
wi = coefficiente di espansione all’universo della famiglia i-esima
Intensità della povertà
I due indicatori (incidenza e intensità) vengono calcolati oltre che per il totale
Italia, anche in corrispondenza a diversi livelli territoriali e ad alcune caratteristiche
delle famiglie. E’ così possibile seguire l’evoluzione del fenomeno anche
in relazione a sottopopolazioni di particolare interesse.
dove:
PG = intensità della povertà (Poverty gap)
p = numero di famiglie campione
SEi = spesa per consumi equivalente della famiglia i-esima
wi = coefficiente di espansione all’universo della famiglia i-esima
Tabella A.3
Incidenza della povertà relativa e della povertà assoluta per ripartizione (anno
2002)
Ripartizione territoriale
Incidenza anno 2002 (%)
Povertà relativa Povertà assoluta
Italia settentrionale 6,0 1,7
Italia centrale 6,0 2,2
Italia meridionale e insulare 24,2 8,9
Totale Italia 12,0 11,0
I dati utilizzati a titolo di confronto sono relativi all’ultimo anno in cui è stata
calcolata dall’Istat la povertà assoluta. Ovviamente l’incidenza della povertà
relativa è sempre minore di quella calcolata in base alla povertà assoluta, essendo
le soglie di questa ultima inferiori alle corrispondenti soglie della povertà
relativa.
Una famiglia considerata povera, secondo la nozione di povertà assoluta, lo è
anche secondo il criterio della povertà relativa, ma non necessariamente è vero
il contrario.
Confronto tra i sussidi
di disoccupazione nei paesi Ue
………………………………………………………………………………
Confronto tra i sussidi di disoccupazione nei paesi Ue (*)
Estensione sociale
Limiti d’accesso
In generale, il dispositivo assistenziale si rivolge a coloro che vivono sotto una certa soglia
di reddito, definita sulla base del salario minimo in vigore (Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi
e alcune regioni spagnole), della pensione sociale (Portogallo), di un certo ammontare prestabilito
(Gran Bretagna), oppure della capacità di provvedere al proprio sostentamento e a quello
del proprio nucleo familiare (Danimarca, Finlandia, Svezia). I beneficiari sono i singoli
individui (ma anche famiglie, coppie di fatto, conviventi), tranne in Spagna dove i beneficiari
sono le famiglie. I limiti di età variano dai 25 anni per Francia e Spagna, a nessun limite per
la Gran Bretagna. La nazionalità non è indispensabile per lo schema assistenziale, ma lo è
la residenza, per periodi variabili tra stato e stato. In Germania, vige una normativa speciale
per i richiedenti asilo ed alcune limitazioni per i rifugiati riconosciuti.
In Francia, per accedere al beneficio previdenziale, la disoccupazione deve essere involontaria.
Lo schema previdenziale è obbligatorio. Per accedervi occorre avere tra i 16 e i 65 anni e
quattro mesi di lavoro negli ultimi otto. Chi non raggiunge i requisiti contributivi può richiedere
la prestazione assistenziale, Allocation d’insertion. Anche chi è disoccupato di lunga durata
ed ha cinque anni di lavoro negli ultimi 10 può richiedere l’assistenza. Lo schema assistenziale
è Means tested. Per accedere al beneficio assistenziale del Reveneu minimum d’insertion (Rmi) occorre
dimostrare di non disporre di reddito sufficiente a soddisfare i bisogni primari, e eventualmente
quelli della propria famiglia. L’età minima è 25 anni.
In Germania, per accedere alla prestazione previdenziale, occorre essere stati assicurati per
almeno 12 mesi negli ultimi tre anni. L’assistenza è indirizzata a chi non raggiunge un livello
di vita dignitoso, a chi già ha usufruito dell’assicurazione, oppure a chi non raggiunge il requisito
minimo di cinque mesi di lavoro con copertura previdenziale. L’accertamento dello stato
di bisogno, Means test, è condizione necessaria per ottenere la prestazione assistenziale. I soggetti
considerati disoccupati di lungo periodo possono percepire simultaneamente prestazioni
da entrambi i sistemi, nel caso in cui il sussidio sia inferiore all’assistenza per il sostentamento.
Per nessuno schema sono previsti limiti di età .
In Austria, maturando 52 settimane di assicurazione negli ultimi due anni, di cui 26 negli ultimi
12 mesi, è possibile beneficiare della prestazione previdenziale. L’assicurazione spetta anche
a chi, pur avendo esaurito il periodo di beneficio, versa ancora in stato di bisogno. L’assistenza
è erogata nel quadro della copertura dei bisogni di esistenza.. Sia la prestazione previdenziale
che quella assistenziale prevedono il Means test. Per entrambi gli schemi l’accesso non ha vincoli
di età.
In Olanda, la disoccupazione deve essere involontaria. L’adesione all’assicurazione è obbligatoria.
Con 26 settimane di lavoro nelle 39 precedenti al periodo di disoccupazione, si accede al
General benefit, riferito ad un salario minimo prefissato. Per accedere all’Extended benefit, collegato
al reddito precedentemente percepito, occorrono in più 52 giorni retribuiti in almeno quattro
dei cinque anni prima della richiesta.
Chi accede al beneficio esteso può richiedere al termine un ulteriore periodo di Follow up benefit.
Queste prestazioni possono essere integrate con un’indennità assistenziale che integra le
altre prestazioni. L’assistenza sociale è per chi non può sostenere i costi necessari al soddisfacimento
dei propri bisogni. L’età minima per l’assistenza è 18 anni. Per chi non rientra nei
requisiti economici per accedere all’assistenza, ma vive di poco al di sopra dello standard minino
ha diritto ad integrazioni particolari per ad esempio gite scolastiche, ristrutturazioni di
immobili, riscaldamento.
In Belgio, se non si dispone di altre fonti di reddito e si è registrati come disoccupati, è prevista
un’indennità ordinaria di disoccupazione. Gli studenti che espletano a tempo parziale
l’obbligo scolastico possono richiedere l’allocation de transition, calcolato in base al tipo di studi
effettuati. L’integrazione sociale spetta invece a chi non ha i mezzi per il proprio sostentamento,
solo per essa esiste un limite minimo di età che è 18 anni.
In Gran Bretagna per beneficiare della prestazione previdenziale, Contribution based, occorre
aver versato, in uno dei due anni precedenti la richiesta di reddito, contributi pari, almeno, a 25
volte il limite minimo di reddito calcolato per quell’anno. Lo schema assistenziale, Income based,
funziona come rete di sicurezza di ultima istanza ed è sottoposto al Means test.
In Irlanda l’assicurazione è prevista per chi ha oltre 16 anni ed è registrato come disoccupato.
Occorrono 39 settimane di contributi versati. L’assistenza è subordinata a Means test, necessita
ovvero di accertamento dello stato di bisogno ed è rivolta a chi ha superato i 18 anni.
In Danimarca la disoccupazione deve essere involontaria. Esiste uno schema previdenziale
non obbligatorio contro la disoccupazione. Ne possono usufruire tutti gli iscritti con età compresa
tra i 18 e i 65 anni che abbiano maturato almeno 52 settimane di lavoro, autonomo o
dipendente negli ultimi tre anni e chi, anche sprovvisto di esperienze lavorative, ha frequentato
per almeno 18 mesi un corso di formazione professionale. Per chi non vi aderisce è previsto
uno schema di solidarietà. L’assistenza per chi versa in stato di bisogno non ha limiti di età
ma difficilmente è erogata sotto i 18 anni.
In Svezia la disoccupazione deve essere involontaria. Per usufruire dei benefici previdenziali è
necessario essere inscritti da almeno un anno. Occorre raggiungere la soglia contributiva di 12
mesi per accedere al Income related, consistente in una prestazione correlata al reddito precedente.
Se mancano i requisiti contributivi, ma negli ultimi sei mesi si è lavorato almeno 70 ore
al mese, oppure 450 ore continuate, si può richiedere una prestazione di base, Flate rate, non
dipendente dal reddito precedente. Le società assicuratrici sono collegate ai sindacati e per chi
non è inscritto a nessun sindacato le spese previdenziali sono maggiorate. L’assistenza sociale
è intesa come assistenza di ultima istanza e non ha limiti di età anche se è erogata a livello
familiare, con l’obbligo per i genitori di mantenere i figli.
In Finlandia la disoccupazione deve essere involontaria. Per usufruire dei benefici previdenziale
di base, Flate rate, non occorre aver stipulato l’assicurazione. E’ però necessario aver lavorato
come dipendenti per almeno 43 settimane negli ultimi 24 mesi. Per accedere ad una prestazione,
Earning related, collegata al reddito precedente, oltre alle condizioni precedenti, bisogna
aver stipulato contratti con l’assicurazione. Esiste anche un’indennità assistenziale per chi
non rientra nei requisiti previdenziali, oppure ne ha usufruito nella misura massima consenti
ta, oppure dimostra lo stato di bisogno. Per questa ultima prestazione assistenziale non ci sono
limiti di età anche se difficilmente viene erogata sotto i 18 anni.
In Spagna, per usufruire della prestazione previdenziale, occorre aver lavorato nell’industria e
nei servizi e aver maturato 12 mesi di contributi. Esaurito il diritto all’assicurazione, e intercorsi
30 giorni per la ricerca di un lavoro, è possibile richiedere un’indennità assistenziale.
L’assistenza copre i possessori di ‘carichi familiari’ e chi ha raggiunto i 45 anni. E’ obbligatorio
sottoporsi ad un accertamento dello stato di bisogno, Means test. Questa misura assistenziale
è diretta a combattere la povertà ed è richiedibile solo da chi ha tra i 25 e i 65 anni di età.
In Grecia la disoccupazione deve essere involontaria. Esiste uno schema previdenziale per chi
ha lavorato 125 giorni durante i 12 mesi precedenti oppure 200 giorni nei due anni precedenti.
Per chi ha tra i 20 e i 29 anni, è ‘sufficiente’ aver lavorato 80 giorni nei due anni precedenti.
Non esistono schemi assistenziali
In Portogallo la disoccupazione deve essere involontaria. Lo schema previdenziale è riservato
all’industria e ai servizi. Se si è registrati come disoccupati, con almeno due anni di contributi,
540 giorni di lavoro salariato, e nessuna pensione di invalidità, si riesce ad accedere allo
schema previdenziale. Esiste anche uno schema assistenziale per chi non ha completato il
periodo di assicurazione necessario, oppure ha raggiunto il periodo massimo di fruizione.
Occorre comunque aver lavorato 180 giorni nei 12 mesi precedenti la richiesta di prestazione.
L’assistenza viene comunque erogata anche a chi non possiede nessun contributo versato ed
ha raggiunto i 18 anni di età. Si viene sottoposti ad accertamento dello stato di bisogno.
Obblighi di mantenimento
Per ciò che concerne il sistema assistenziale c’è un orientamento comune che prevede una
serie di azioni durante il periodo di beneficio, specie sotto il profilo della disponibilità ad
accettare i lavori proposti, di cui abbiamo illustrato le caratteristiche nel corso della trattazione
precedente. Questo orientamento allinea le caratteristiche dei piani di inserimento utilizzati
per i sussidi di disoccupazione a quelli dell’assistenza, compreso l’obbligo ad accettare
lavori, che per la misura assistenziale assume nella maggior parte dei casi la forma dell’obbligo
ad accettare la prima offerta di lavoro utile a prescindere dalle sue caratteristiche.
In Francia, sia per la previdenza che per l’assistenza è richiesta la disponibilità a svolgere attività
formative o di inserimento sociale.
In Germania, in entrambi gli schemi sono previste per il beneficiario azioni di “integrazione”.
Per ricevere l’assistenza è necessario sottoporsi annualmente al Means test. È stata abolita la possibilità,
da parte del percettore, di rifiutare offerte di lavoro o azioni formative, qualora non
corrispondano alla propria qualifica o alle proprie aspirazioni.
In Austria, per ottenere eventuali prolungamenti del periodo della prestazione previdenziale,
occorre partecipare a programmi di formazione. Inoltre, chi riceve sussidi o assistenza deve
essere ‘volenteroso’ e pronto ad accettare offerte di lavoro, anche non adeguate al proprio livello
di studio.
In Olanda il percettore deve, per entrambi gli schemi, cercare lavoro attivamente, pena la perdita
del sussidio o dell’assistenza. Tale disponibilità è costantemente monitorata dal Servizio
per l’Impiego. Il soggetto non può rifiutare offerte ‘adeguate’ di lavoro: nei primi sei mesi, è
considerata offerta adeguata quella corrispondente al proprio livello di istruzione. In seguito,
quella immediatamente inferiore e così via. Fa eccezione, per le prestazioni assistenziali, chi ha
figli a carico sotto i 5 anni e chi è sopra i 57 anni di età.
In Belgio la disponibilità ad accettare offerte di lavoro è monitorata durante il periodo di percepimento
sia dell’indennità di disoccupazione che dell’assistenza. E’ previsto un incentivo per
coloro che tornano allo stato di occupazione.
In Gran Bretagna l’obbligo di ricerca attiva di lavoro è gestito attraverso il Jobseekers’ agreement,
firmato dal richiedente reddito. In esso sono concordati i passi che il soggetto dovrà compiere
per “migliorare le proprie capacità d’inserimento professionale”. In caso di comportamenti
non in linea con il piano stabilito, sono previste sanzioni fino alla sospensione dell’intero sussidio.
I percettori di assistenza seguono uno schema con i medesimi principi del Jobseekers’
agreement con la differenza che l’income support non prevede sanzioni per i beneficiari.
In Irlanda è previsto l’obbligo di ‘ricerca attiva di lavoro’ solo per l’indennità di disoccupazione
e non per l’indennità integrativa dell’assistenza sociale
In Danimarca i beneficiari della prestazione previdenziale nei primi due anni, detti ‘di sostegno’,
rischiano di perdere da una settimana all’intero sussidio, in caso di rifiuto di un’offerta di
lavoro. Nei tre anni successivi ‘di attivazione’, viene anche imposta la partecipazione a corsi di
formazione e/o istruzione. L’intero percorso di ricerca di lavoro e formazione viene stabilito
con un accordo formale, Piano specifico di azione, tra il richiedente reddito e il Servizio Pubblico
per l’Impiego. Anche per i beneficiari dell’assistenza è previsto lo stesso percorso di ‘attivazione
sociale’ dei percettori di sussidio.
In Svezia sono previste sanzioni per chi rifiuta un lavoro durante il periodo di erogazione del
reddito sia esso percepito a titolo assistenziale o previdenziale.
In Finlandia l’obbligo di disponibilità al lavoro è inasprito per i giovani tra i 20 e i 24 anni i
quali, in caso di rifiuto di un’offerta di lavoro, studio, formazione, perdono anche il diritto alla
prestazione assistenziale. Chi usufruisce della prestazione assistenziale subisce periodicamente
un accertamento dello stato di bisogno, Means test.
In Spagna è richiesta la disponibilità ad accettare lavoro per entrambe le misure.
In Grecia non esistono vincoli specifici per il mantenimento dei sussidi e non esistono schemi
assistenziali.
In Portogallo, occorre per entrambi gli schemi registrarsi ai centri per l’impiego ed essere
disponibili alla formazione e ad attività d’inserimento.
Intensità retributiva
Durata dell’erogazione
Per quanto riguarda l’assistenza, non è prevista alcuna durata, tranne in Francia, Spagna
e Portogallo. Per quanto concerne il sussidio di disoccupazione la durata è diversa da
paese a paese e comunque proporzionale ai contributi versati. Nei casi in cui è presente, la
durata del beneficio di base erogato a chi non matura i contributi sufficienti per il sussidio ma
ha versato un certo numero di contributi è di durata fissa differente da paese a paese.
In Francia la durata della prestazione previdenziale dipende dal periodo di assicurazione,
variando da un minimo di quattro ad un massimo di 60 mesi. L’assistenza è rinnovabile una
volta nel caso dell’Allocation d’insertion, l’Allocation de solidarité spécifique, per i disoccupati di lungo
periodo, è rinnovabile di sei mesi in sei mesi, all’infinito, l’Rmi da tre mesi ad un anno, comunque
rinnovabile.
In Germania la prestazione previdenziale varia da due a 32 mesi, in funzione di anzianità contributiva
ed età. L’assistenza, rinnovata anno per anno, ha durata potenzialmente illimitata.
In Austria la durata della prestazione previdenziale dipende dal precedente impiego e dall’età.
Varia da un minimo di 20 settimane a un massimo di un anno. L’assistenza è potenzialmente
illimitata, fino all’esaurimento dello stato di bisogno.
In Belgio la durata delle indennità è pressoché illimitata, anche se sono state introdotte restrizioni,
che obbligano i beneficiari a seguire i programmi di inserimento concordati.
In Olanda la durata del General benefit è di sei mesi. L’Extended benefit dura da nove mesi a cinque
anni in relazione a età e anzianità contributiva, cui si sommano ulteriori due anni di Follow
up benefit. L’assistenza è illimitata.
In Gran Bretagna la durata della prestazione previdenziale è di sei mesi, mentre l’assistenza
non ha limiti temporali.
In Irlanda l’assicurazione ha una durata massima di sei mesi, mentre l’assistenza ha durata
potenzialmente illimitata.
In Danimarca la durata massima è di cinque anni per la prestazione previdenziale.
L’assistenza è illimitata.
In Svezia la durata delle prestazioni previdenziali è di 300 giorni, che arrivano a 450 in caso si
superi l’età di 57 anni. L’assistenza è illimitata
In Finlandia la prestazione assistenziale non ha limiti di tempo. L’Earning related e il Flate rate
sono erogate per 500 giorni.
In Spagna la durata della prestazione previdenziale è pari a 1/3 del periodo di contribuzione,
con un minimo di un anno e un massimo di due. L’assistenza dura 12 mesi, ma può essere prorogata.
Ciò dipenderà anche dai ‘carichi familiari’ , per chi ha più di 52 anni può essere prorogata
fino alla pensione.
In Grecia, per il sussidio contributivo, da cinque mesi a un anno, in base a contributi ed età.
In Portogallo, il sistema contributivo va, da 10 mesi, per chi ha meno di 25 anni, a 30 mesi,
per chi ne ha più di 55. L’assistenza è di 12 mesi rinnovabile.
Entità dell'erogazione
Il contributo assistenziale prevede un ammontare variabile da Stato a Stato, che va dal 70
per cento del salario minimo, nei Paesi Bassi, a contributi minimi di sussistenza, in Spagna e
Portogallo. Ad esso bisogna aggiungere i contributi, quando presenti, in termini di servizi o di
altre erogazioni monetarie per l’alloggio. L’entità dei sussidi di disoccupazione ha un carattere
molto variabile da paese a paese e comunque legato all’entità dei contributi versati. Per l’assistenza
l’erogazione è anche legata ai carichi familiari.
In Francia l’erogazione previdenziale è pari al 40 per cento del salario giornaliero, maggiorato
di una quota fissa, oppure il 57 per cento del salario precedente. In base a età e contributi,
la cifra decresce con un tasso compreso tra l’otto per cento e il 25 per cento. L’assistenza consiste
in un importo fisso giornaliero per l’ Allocation d’insertion e per l’Rmi, è strutturata a scaglioni
in base ad età e contributi, per i disoccupati di lunga durata. All’importo base vanno
aggiunte delle queste in base al numero di persone a carico del richiedente. Chi beneficia
dell’Rmi può avere diritto ad integrazioni per l’alloggio.
In Germania la consistenza della prestazione previdenziale va dal 60 al 67 per cento (con figli
a carico) dell’ultimo reddito netto. Le quote assistenziali sono stabilite dai Lander, anche l’assistenza
è maggiore, se si possiedono figli a carico. Agli importi base vanno aggiunti contributi
per le risorse d’esistenza che comprendono alloggio, cibo, vestiario, igiene, utenze domestiche,
elettrodomestici.
In Austria l’assicurazione è pari al 56 per cento del salario di riferimento. L’assistenza, quando
erogata come prolungamento del periodo di copertura previdenziale, è circa il 95 per cento
della prestazione previdenziale. L’assistenza sociale in quanto tale è determina in misura fissa
dai Lander, alcuni dei bisogni fuori copertura, come casa e abbigliamento sono coperti con
indennità integrative, corrisposte in contanti o in prestazioni. Esiste inoltre, in aggiunta alle
indennità integrative, la possibilità di prestazioni occasionali per specifici bisogni quali ad
esempio la ristrutturazione degli appartamenti.
In Belgio in base alla presenza di persone a carico e conviventi, l’indennità di disoccupazione
può variare dal 60 per cento al 35 per cento del reddito precedentemente percepito. Il reddito
assistenziale detto di integrazione è fissato come il minimo necessario al sostentamento più
un incremento percentuale fisso.
In Olanda l’entità dell’indennità di base è il 70 per cento del salario minimo di riferimento. Per
il beneficio esteso si calcola il 70,5 per cento del salario precedente. Il Follow up benefit è equivalente
all’indennità di base. Gli importi standard dell’indennità di base assistenziale sono collegati
al salario minimo in vigore. Ad essi vanno aggiunte le integrazioni per i servizi di base,
quali alloggio e riscaldamento.
In Gran Bretagna la prestazione previdenziale è una cifra fissa settimanale, non relativa al
salario precedente. E’ indipendente da carichi familiari o altro. L’entità dell’assistenza dipende
invece da età, carichi familiari e reddito del partner.
In Irlanda la quota fissa della prestazione previdenziale è quella prevista per l’assistenza. In
entrambi i casi dipende da carichi e redditi familiari. Per i percettori di assistenza sono previste
anche integrazioni particolari e indennità occasionali.
In Danimarca la quota del sussidio di disoccupazione copre fino al 90 per cento del salario
precedente, in misura decrescente al crescere del salario. L’assistenza è tra l’80 per cento e il 60
per cento del minimo previsto per il sussidio. Sono previste inoltre integrazioni per specifici
bisogni e indennità uniche per coprire ad esempio le spese provocate dalla partecipazione alle
misure di integrazione di natura formativa o occupazionale.
In Svezia l’Income related previdenziale si situa in un range che ha come tetto massimo l’80 per
cento del salario di riferimento, e come minimo l’indennità di base. L’assistenza è in parte fissata
annualmente dal governo. In parte i comuni devono corrispondere delle quote determinate
sui costi reali del soddisfacimento dei bisogni (entro determinati limiti di spesa).
In Finlandia l’Earning related è pari al 42 per cento della differenza tra il salario precedente e
l’indennità di base, Flate rate. L’entità della prestazione assistenziale è di valore equivalente
all’indennità di base e fissata per legge. Sono previste per l’assistenza, integrazioni particolari
quali copertura di spese per l’abitazione, assistenza medica ed altro.
In Spagna l’erogazione è il 70 per cento del salario precedente nei primi 180 giorni, e il 60 per
cento nel periodo successivo. E’ prevista una soglia minima pari al 75 per cento del salario
interprofessionale (40 per cento del salario medio). L’assistenza equivale al tetto minimo della
prestazione previdenziale. L’importo minimo viene comunque determinato dalle Comunità
autonome.
In Grecia per il sistema contributivo, il 40 per cento del salario antecedente la disoccupazione,
per i lavoratori manuali, e il 50 per cento per gli impiegati.
In Portogallo per la prestazione previdenziale, si eroga il 65 per cento del salario di riferimento,
calcolato come media dei salari dell’anno precedente. L’assistenza ha un range che va dal 70
per cento al 100 per cento del salario minimo a seconda delle persone a carico, in ogni caso è
al minimo il 5 per cento stabilito per la pensione sociale.
(*) Fonti: Missoc - Mutual Information System on Social Protection ; De Rita C., Montaldi G., Orientamenti europei in materia di
sicurezza sociale: una rassegna dei dispositivi di ultima rete ISFOL 2004; Mancini M., I sistemi di protezione del reddito dei disoccupati in
Italia tra politica sociale e strategie per l’occupazione ISFOL 2000
http://www.redditogarantito.it/#!/home
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